La mia Bolivia

di Michela Simoncini

“Mamma, papà, tra un mese parto per il Sud America per fare volontariato”. 

Così ho annunciato ai miei genitori che di lì a pochi giorni sarei partita per la Bolivia, fronteggiando il loro comprensibile stupore con un bel sorriso ed una cartina geografica. “Vado qui”, dissi indicando una chiazza blu sulla mappa. Era il lago Titicaca, lago al confine tra la Bolivia e il Perù che con i suoi   3.812 m sopra il livello del mare vanta la fama di essere il più alto del mondo.

Precisamene sarei andata Huatajata, una delle 10 comunità a vocazione rurale che si estendono lungo le rive del Lago, presso il centro di formazione permanente Taipi Warminaka, dove è attualmente in corso per il secondo anno il progetto del servizio civile nazionale promosso dalle associazioni Cesc Project e Gondwana, verso le quali sarò sempre grata per aver accolto con sostegno e disponibilità il mio desiderio di partire.

A nulla sono valse le perplessità dei miei genitori, la decisione era presa. Avevo un periodo di stop lavorativo che mi consentiva finalmente di fare, seppur per un solo mese, un’esperienza della quale da tempo avvertivo l’esigenza. Volevo conoscere una realtà diversa, avere la possibilità di entrare in contatto con le persone del luogo vivendo nel loro modo il loro mondo, lontano dai prestabiliti itinerari turistici e, soprattutto, dando fattivamente il mio contributo.

Sono partita quindi senza aspettative ma con un’unica consapevolezza: sarebbe stato uno scambio dal quale avrei sicuramente ricevuto più di quanto avrei dato. E così è stato: superato lo shock Altitudine, i 4000 metri di altezza sopra il livello del mare Di El Alto, cittadina vicino La Paz presso la quale è situato l’aereoporto, possono causare emicranie e problemi di respirazione (fortunatamente non è stato il mio caso), sono stata amorevolmente accolta da Dario e Lidia, rispettivamente coordinatore e responsabile in loco del progetto, presso cui ho trascorso la prima notte a La Paz, prima di raggiungere a Huatajata i 4 volontari (Martina, Marita, Ciccio e Alessandra), che avevano da un mese iniziato la loro esperienza annuale di volontariato al centro e con i quali avrei trascorso tutto il mese successivo.

Huatajata, panoramica cittadina che costeggia il lago Titicaca lungo la strada tra La Paz e Copacabana culturalmente legata alla tradizione indigena aymara, è uno di quei posti dove le persone si conoscono tutte tra di loro, e anche se non ti conoscono ti salutano con un sorriso; uno di quei posti in cui non c’è bisogno di porte blindate perché le case, principalmente in terra, sono costruite con l’aiuto di tutti gli abitanti che forniscono, ognuno con i mezzi di cui dispone, materiali o sostegno manuale; uno di quei posti dove alle cariche istituzionali del consiglio comunale si affiancano le figure autorevoli stabilite all’interno della comunità mediante un sistema di rotazione annuale che vede l’ alternarsi delle varie famiglie.

“Chiusi nelle nostre realtà abbiamo spesso la presunzione di contare così tanto su questa Terra che ci dimentichiamo quanto sia invece piccolo lo spazio che occupiamo. Ebbene, un’esperienza di volontariato all’estero ti fa tornare a casa più umile, più modesto, più lucido. Più ricco.”

E’ un posto distante dalla frenesia e dal dinamismo cittadino ma anche dalle comodità cui siamo ormai abituati, come acqua calda, connessione wi-fi, riscaldamenti e dove, sostanzialmente, la vita scorre, nella sua essenzialità, al ritmo della natura.

Il contesto in cui mi sono trovata è stato sorprendentemente accogliente; subito ho percepito la benevolenza di un popolo grato del fatto che avessimo scelto il loro piccolo paese come meta del nostro volontariato e predisposto all’interazione. Partecipavano attivamente alle attività ludiche che svolgevamo nel centro per bambini ed anziani così come ai corsi offerti di panetteria e di sartoria. Non c’era timore in loro ma voglia di condividere con noi le loro tradizioni e usanze: ci hanno infatti permesso di partecipare alle assemblee delle 10 comunità del lago, importante momento in cui ciascun capo-comunità si fa portavoce delle necessità degli abitanti; sono stati felici di offrirci le loro pietanze migliori durante gli Apthapi, i pranzi comunitari in cui ogni cholita, questo il nome delle donne del luogo, stende fieramente a terra il proprio ahuaio (telo colorato che si lega sulla schiena) e offre a tutti i presenti ciò che ha cucinato; ci hanno trattato come ospiti d’onore durante i festeggiamenti per il Carnevale, dove vestiti con i loro abiti tipici, provavamo goffamente ad imitare le loro movenze nei balli sfrenati che per 4 giorni animano la piazza del paese..

Cosa mi rimarrà di questa esperienza?

Il ricordo di un paesino dal nome difficile da pronunciare lungo le rive di un lago dai colori sempre diversi e in cui ho avuto modo di conoscere 4 fantastici volontari del servizio civile, Marita, Martina, Alessandra e Ciccio (che rimarranno a Huatajata fino al prossimo gennaio) e di condividere con loro dei momenti di irripetibile scoperta. Chiusi nelle nostre realtà abbiamo spesso la presunzione di contare così tanto su questa Terra che ci dimentichiamo quanto sia invece piccolo lo spazio che occupiamo. Ebbene, un’esperienza di volontariato all’estero ti fa tornare a casa più umile, più modesto, più lucido. Più ricco.

E poi potrò dire di aver mangiato una patata anagraficamente più adulta di me. Proprio così, in Bolivia usano disidratare le patate (la coltivazione più diffusa), in modo che si mantengano commestibili il più a lungo possibile per sopperire ai momenti di scarsità di raccolto… devo dire che il mio chugno (questo la denominazione che assume la patata al termine del complesso procedimento di disidratazione) si portava egregiamente i suoi 30 anni!

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