Svegliarsi altrove

Alice Politano, SCU Ecuador 2022

Mi sveglio, mi giro verso la finestra e scosto la tenda, esclusivamente la tenda, qui di persiane non vi è neanche l’ombra. E tende rigorosamente chiare, gialle, bianche, in modo che la luce penetri per bene. Del resto, gli ecuadoriani, almeno qui sulle Ande, sono persone mattiniere, la giornata inizia prima che in Occidente, e finisce anche prima. Scosto la tenda e vedo il Taita (il “padre”), il capo coperto da alcune nuvolette, la luce che ancora a quest’ora riesce a disegnare qualche ombra, i pendii morbidi e verdi che scivolano a valle, conferendogli un’aria dolce. Il Taita è l’Imbabura, il vulcano che veglia sulla città bianca, Ibarra, dove vivo da tre mesi. Domina sulla provincia omonima, dall’alto dei suoi 4600 metri. Una targa esposta in un mirador che affaccia sulla città dice che è il padre mitico del popolo indigeno Caranqui, un’antica “nazione” (come dicono qui, in uno dei pochi stati plurinazionali al mondo) che abitava gli altopiani settentrionali dell’attuale Ecuador.

La vista del vulcano Imbabura dalla finestra della mia camera, a Ibarra

È strano, svegliarsi con accanto un vulcano, per me che sono abituata a un orizzonte urbano a perdita d’occhio. È strano anche avere il sole dritto in testa per la maggior parte della giornata. Ricordo che a Roma mi ingegnavo sempre al massimo per intercettare i fasci di luce che al pomeriggio si infilavano nella mia stanza superando i palazzi, mentre qui non c’è verso, il sole va subito in alto, e l’unica maniera è piazzarsi in terrazza con il concreto rischio di bruciarsi. Maledetto equatore, maledetto e benedetto. È una relazione ambivalente la nostra. Ti sono grata del fatto che ci sia il sole fino alle sei anche in inverno (che poi, quale inverno?), ma penso potresti concederci qualcosa di più in estate. Se penso alle sere romane con la luce fino alle nove… E poi le stagioni, dove sono le stagioni? È piuttosto singolare andare a prendere un gelato in maniche corte il 17 di dicembre, percorrendo strade adorne di lucine e alberi di Natale e dovendo ripararsi all’ombra degli alberi.

È strano, ma mi piace. Contribuisce a conferire a questa esperienza una dimensione di eccezionalità, la astrae da tutto quello che è stata la mia vita finora, e che probabilmente sarà in futuro. Sono consapevole del fatto che si tratti di una bolla, di un segmento di vita. Ma è una bolla felice. Dà tanto.

È un confronto continuo, un imparare, un mettersi in discussione. Mi fa capire, come mi capita sempre quando mi sposto altrove, di non sapere molto, di avere ancora tanto da conoscere. Ma non è un comprendere negativo, svilente, è apertura e fame di conoscenza, nei suoi diversi aspetti. E questo Paese ha davvero tanto da offrire. Anche se forse ha un atteggiamento più mite di altri protagonisti del Sud America, meno esuberante di un Brasile, meno estroverso di un’Argentina, meno caloroso di quello che immagino essere la Colombia. Ma è la sua mitezza, i suoi ritmi lenti, lo scoprire a ogni curva qualcosa di nuovo a renderlo affascinante.

La lentezza è sicuramente un tratto distintivo di queste latitudini, a volte snervante per chi è abituato alla fretta occidentale. Ma può essere visto come un insegnamento, un invito a procedere con più rilassatezza, più calma, a non correre sempre ovunque in nome di una produttività tanto cara alle logiche della nostra società.

Del resto, l’Ecuador è una delle culle del Buen Vivir, concetto che da tempo suscita in me un’ammirazione adolescenziale. Che strano, un Paese che mette in Costituzione lo “stare bene” in armonia con il resto degli esseri umani e con la natura tutta. Che strano, anche se a pensarci non dovrebbe esserci nulla di più importante. In questo angolo di mondo hanno deciso di provare, non senza difficoltà, a tradurre in prassi il Sumak kawsay, versione quechua del “vivere bene”, che vorrebbe attuare logiche di sviluppo diverse da quelle capitaliste che viviamo oggi. E in qualche modo questa terra, lo stare qui, nelle valli andine, sui picchi immersi nelle nuvole, o nel verde della selva amazzonica, te la fa sentire davvero questa diversa armonia con ciò che ti circonda.

Sicuramente si è ancora ben lontani dalla messa in pratica di concetti per ora troppo teorici, quasi romantici e idealizzati, ma ciò che mi affascina da sempre di questo continente è proprio la forza generativa, la potenzialità di produrre alternative a un sistema ritenuto ingiusto o non funzionale.

Un murales realizzato durante il “paro” indigeno del giugno del 2022 nella cittadina de La Esperanza, a nord di Ibarra

Anche il rapporto con la natura in Ecuador è singolare. Mi fossi trovata in Italia avrei probabilmente storto il naso con scetticismo di fronte alla proposta di partecipare a un rituale di “raccolta delle intenzioni” da affidare alla nuova luna nascente, in una foresta, lungo un fiume, di notte. Ma questo posto ha un’energia diversa da casa, che ti allontana dalle tue credenze e ti mette in discussione. Stare qui riesce a farti sentire davvero più vicina la pachamama. Alcune delle persone che ho incontrato in questo cammino hanno un modo di guardare alla natura che è completamente diverso da quello che ho conosciuto finora nella mia fetta di mondo. C’è un sentirsi parte di essa, un rispetto (sbeffeggiato poi dal paradosso dalla mancanza di gestione dei rifiuti nei settori rurali, per esempio) e una connessione spirituale che in Italia non vedo – o che, se presente, sembra venire il più delle volte da mondi lontani –che mi affascina e mi attrae (esotismo alert) e che sembra davvero avere il potere di far riflettere, ripensare alle priorità della vita e ricentrarsi.

E chi ha detto che questo modo di vivere più lento, più in armonia con il resto della terra, non possa essere quello vincente? Chi ha detto che perdere velocità sia perdere necessariamente valore?

L’ultimo tratto del camino inca dell’Ecuador, nella provincia di Cañar, a sud del Paese

 


 

Alice Politano, SCU presso la sede di Gondwana Ibarra FEPP