L'uomo che parte

di Cristiano Minino, sede di Ilunda

Cosa mi abbia spinto di preciso a fare le valige e a partire per andare un anno in un villaggio sperduto nel nulla in Tanzania, io non so spiegarlo bene.

Sarà che come diceva Bruce Chatwin abbiamo bisogno del cambiamento come l’aria che respiriamo, che senza cambiamento corpo e cervello marciscono. E si, io ne avevo bisogno. Avevo bisogno di cambiare, di mettermi in strada, di camminare e di partire. Così mi sono buttato in questa avventura che si collocava al momento giusto di una mia fase di ricerca sia personale sia professionale. Ho fatto così richiesta di tornare al centro orfani “Tumaini”, un posto in cui avevo lasciato un pezzo di cuore in una esperienza di sole due settimane l’estate scorsa. Avevo voglia di assaporare a pieno questa terra che avevo appena assaggiato. Avevo voglia di viverla e di farne parte. Erano troppe le domande con cui sono tornato a casa, troppe le cose che ancora non mi erano chiare e che ancora non avevo capito di questo posto.

Dopo pochi mesi che sono qui però posso dire con certezza che questo posto tante risposte non le da. Offre solo tante domande. Ma forse è proprio questo il bello del mettersi in viaggio. Raccogliere tante domande e riempire il proprio zaino. Il mettersi sempre in discussione, il fare i conti con sé stessi, con i propri limiti, le proprie incertezze e insicurezze, le proprie paure. Questo posto fa prendere consapevolezza del fatto che esiste tanto altro oltre la nostra vita, che esistono tanti modi di viverla e che soprattutto non esiste un modo giusto di intenderla.

E’ poco tempo che sono qui eppure penso a quanto io (ma anche la società a cui appartengo, quella occidentale) debba rivedere le mie priorità. Penso a quanto spazio diamo nella quotidianità a cose che qui sono assolutamente superficiali se non inutili. A quanta poca attenzione dedichiamo al dare il giusto valore alle cose.

Qui manca tutto. Non c’è niente. Comodità che noi (occidentali) diamo per scontato qui non esistono. Spesso non c’è corrente, non c’è acqua, non c’è il cibo che desideriamo. Non ci sono servizi. Ma c’è tanto altro. Qui c’è un grandissimo senso di  comunità. Qui c’è un grandissimo senso di accoglienza. Qui c’è l’Ubuntu, l’essenza dell’essere umano, il lavorare per il bene comune perché la nostra umanità appartiene all’umanità stessa. Qui c’è tanta forza. C’è la forza di tante donne che con tanti sforzi e con pochissime certezze sostengono migliaia di ragazzi e bambini cercando di assicurargli un futuro dignitoso. Qui ci sono tanti sorrisi. Tanti colori. Tante stelle la sera. Tanta bellezza. Tanta semplicità ed essenzialità.
Se c’è un’immagine di questo posto che al momento porto con me più di tutte è quella dei bambini che, evidentemente stanchi, ci accolgono la sera tardi al nostro arrivo. Cantano, ballano e sorridono. Tutto questo per l’arrivo dei “wazungu” (i bianchi), persone totalmente sconosciute. E hanno continuato a mantenere questo entusiasmo fino ad oggi. Continuano a dimostrarcelo ogni giorno, per esempio, quando apriamo la porta di casa e tutti corrono ad abbracciarci come se non ci vedessero da una vita. Ammiro tantissimo questa capacità di trovare la felicità nell’incontro con l’altro, in chi è diverso da me. Il mio desiderio è quello di restituire questo sentimento a tutte le persone che incontrerò in questo cammino. Credo che la persona che parte e decide di mettersi in strada debba essere capace di amare intensamente e di accogliere l’amore altrui mettendo sempre al centro della propria esistenza l’umanità e l’uomo, guardando alla sua storia, alla sua vita, ai suoi bisogni ed ai suoi limiti prima di qualunque credo e ideologia e sempre libero dal pregiudizio. Deve essere capace di valorizzare e amare la diversità degli uomini e dei popoli del mondo poiché dietro ad esse intravede sempre il principio che ci rende tutti appartenenti alla stessa famiglia umana. Deve essere capace di trovare la felicità nella condivisione e nell’incontro. Condivisione. È un’altra parola che qui mi suona fondamentale. Vivere un’esperienza così grande e bella e non condividerla con nessuno non avrebbe lo stesso sapore. In questo mi sento molto fortunato perché con me ho trovato degli ottimi compagni di strada. Persone con cui sono felice di condividere tutto: servizio, tempo libero, momenti belli, momenti difficili, fatiche, soddifazioni. Mi sento fortunato perché ho trovato persone che mi fanno sentire a casa anche in questo posto ancora un po’ sconosciuto.

Infine chi parte deve saper riconoscere la bellezza nelle piccole cose, nei gesti, negli sguardi, nella quotidianità. Perché in fondo partire vuol dire mettersi nuovamente e definitivamente in strada, scegliere ancora una volta di muoversi e di andare incontro alla vita.

Fai conoscere a tutti le nostre storie!