L’Amazzonia nord ecuatoriana.
Il mio punto di vista dopo un mese.

Leonora Lesi, SCU Ecuador 2022

Il nord dell’Amazzonia ecuatoriana mi regala in ogni occasione infinite emozioni, positive e negative.

Il primo incontro mi ha sorpreso. Ho sempre immaginato, ingenuamente, che l’Amazzonia fosse una foresta con poca attività umane cosí come la conosciamo. La prima cosa che si nota invece è che sono state costruite strade asfaltate che ti portano al suo interno, a lato delle quali ci sono case, coltivazioni e pascoli. Certo le coltivazioni non sono come le nostre in Lombardia, campi disseminati di mais, soia e riso. Ci sono sempre sprazzi di foresta e la vegetazione prova a riprendersi il possesso delle zone a lei sottratte.

A lato della strada poi non possono mancare i tubi che trasportano il petrolio dal nord amazzonico per chilometri fino alla raffineria Esmeraldas, sulla costa. Sono presenti anche i pozzi, piccole strutture, che sembrano quasi innocenti. Tutta l’Amazzonia è disseminata di tubi e pozzi. In ognuno dei quali, per avidità umana, che porta alla decisione di fare saltare i tubi, di non cambiarli quando usurati e di non fare una adeguata manutenzione, può verificarsi una perdita, qui chiamate ‘derrame’. Le perdite piccole di petrolio non vengono neanche considerate, perché si verificano ogni giorno. Le perdite medie o grandi avvengono con cadenza settimanale e devono essere scoperte da chi vive nella zona, perché da sempre le compagnie petrolifere fanno finta di niente, sperando di non dover riparare o meglio limitare il danno.

Con la squadra del FEPP siamo stati vicino a Lago Agrio, dove sto vivendo, a vedere una di queste perdite, avvenuta a lato di un corso d’acqua. Sembra che il tubo fosse saltato e prima che qualcuno se ne accorgesse e spegnesse la pompa, la fuoriuscita di petrolio è durata un’ora. Noi siamo andate lì un mese dopo. C’erano uomini pagati dalla compagnia Petroecuador, compagnia estrattiva statale, che raccoglievano in una piscina il petrolio perso e da lì con dei secchi lo travasavano a mano in un barile. Ci hanno detto che almeno un anno ci sarebbe voluto per ‘ripulire’, come se si potesse riparare il danno fatto all’ecosistema da lì per chilometri.

 

Il mio secondo incontro è avvenuto fuori Tena, una cittadina amazzonica più vicina alle montagne, con una brezza che permette di sentire il freddo la sera, molto raro a Lago Agrio. Mi trovavo lì in permesso con altri amici civilisti conosciuti durante la formazione.

Siamo stati portati da un’amica kichwa attraverso un sentiero nella foresta, fino alla riva di un fiume. Alzando lo sguardo dall’acqua, il muro di vegetazione alto, rigoglio con mille sfumature di verde e rumori dai più comuni ai più particolari, mi ha tolto fiato e posto un sorriso enorme sul volto. La forza che la presenza della foresta emanava è stata sconvolgente. Gridava la sua supremazia e il suo dolore. Ammaliava e impauriva allo stesso tempo, come l’acqua. Entrando nel fiume, ancora vergine dall’inquinamento (chissà per quanto ancora), sono stata congelata e cullata dalla corrente. Corrente che in poco tempo si é fortificata e mi ha spaventata, perché ardua da contrastare. Così ho appreso che per quanto la foresta mi affascini, devo stare attenta: non si scherza con essa se non la conosci. Quella sera la natura ci ha regalato la luna piena. Il primo sguardo mi ha fatto sobbalzare il petto. A due settimane dal mio arrivo in Ecuador mi trovavo immersa nella foresta amazzonica, vivendo la sua acqua, le sue ombre, i suoi rumori, ascoltando storie sugli spiriti protettori, meditando alla luna e circondata da persone a cui voglio bene, che mi riportavano alla realtà facendomi ridere.

 

Il mio terzo incontro è avvenuto nella comunità di San Pablo a Sushufindi. Qui ho conosciuto la realtà della monocultura di palme da olio. La realtà di una piccola comunità indigena che non potendo più vivere come prima e con la speranza, soprattutto dei giovani, in una vita diversa, non vede altra soluzione che quella offerta loro: piantare palme africane nelle loro terre di bosco primario. E chi può biasimarli? I fiumi sono inquinati, i terreni a lato sono tutti monocolture di palma, con anche pozzi petroliferi dentro. Perché loro dovrebbero conservare il bosco senza un beneficio economico che gli permetta di vivere? Certo altre comunità indigene continuano a fare una scelta diversa, a trovare altri modi per andare avanti, ma la pressione è alta.

Ho conosciuto poi la comunità Siekoya Remolino, composta di persone indigene che riconosco nella selva Amazzonica la loro casa, la loro protettrice e insegnante. Considerano la convivenza armonica e complementare con il bosco l’unica forma di vita possibile. Anche loro sono stati stimolati dalle indutrie per piantare palme africane, ma hanno scelto altre forme di sussistenza tra cui il turismo comunitario, il bioimprendilento, la reforestazione e conservazione del bosco e delle loro conoscenze ancestrali. L’equilibrio è precario ma la volontà è forte. Io spero di poter contribuire in parte ad alleviare questa pressione.

Quindi se qualcuno mi dovesse chiedere com’è l’Amazzonia, non potrei che rispondergli entusiasta che è meravigliosa ed emozionante, ogni volta che realizzo che sto vivendo al suo interno, mi sorprendo e sorrido. Subito dopo però un velo di tristezza mi cadrebbe sul volto. Perchè esiste l’altra faccia della realtà amazzonica che tutti conosciamo e cerchiamo di dimenticare e la consapevolezza che andrà sempre peggio, il modo in cui è organizzata ora la nostra società, il modo in cui noi viviamo, che si voglia o meno, necessita di risorse che verranno estratte.

Certo questo non vuol dire che quindi non valga la pena di lottare per cambiare le cose. Non è il momento di piangersi addosso e arrendersi. Anzi, bisogna lavorare di più. Qui i popoli indigeni, insieme a molti cooperanti, continuano lottare e morire per reclamare i loro diritti e quelli della natura. Marlyn Machado, una donna afroecuatoriana, parlando di lotta non violenta, mi ha ricordato che: “La lucha que se pierde es la lucha que no se da!” (la lotta persa è quella che non si combatte!).

Leonora Lesi