La trappola

di Laura Alessio

Dopo quattro mesi di vita in Amazzonia qui in Ecuador, finalmente arriva ciò che aspettavo da lungo tempo: un venerdì festivo. Tre interi giorni liberi a mia completa disposizione per esplorare finalmente un po’ della misteriosa giungla che mi circonda e mi seduce da tempo.

Con un allegro manipolo di avventurieri, gli altri civilisti di Ibarra e Guaranda, optiamo per Cuyabeno. Una delle riserve più conservate dell’Ecuador, distante poco più di due ore da Lago Agrio e caratterizzata da puro bosco nativo, un enorme blob verde di 603,380 ettari, percorso da fiumi sinuosi avviluppati nelle invadenti fronde degli alberi e abitato da milioni di animali tra i più curiosi e incredibili al mondo.

Scegliamo un alloggio modesto, capanne molto essenziali lungo il corso del fiume Cuyabeno per godere a pieno dello stile di vita silvestre, e una guida molto appassionata.

La spedizione può cominciare.

Entusiasti, dotati di botas e coperti di spray anti mosquitos, cominciamo un escursione a piedi di 3 ore nella foresta lungo un mini sentiero fresco di machete. Procediamo in fila indiana, ascoltando tutti i suoni del bosco. Di tanto in tanto Victor, la nostra guida, ci ferma per farci assaggiare formiche al limone e caucciù fresco che sgorga dalle ferite dell’albero della gomma, o per avvicinare ai nostri nasi linfe profumate di radici che i popoli della selva usano per accendere il fuoco, o per aiutarci ad attraversare in equilibrio su tronchi muschiosi i canali d’acqua nascosti sul cammino.

Tutto nella giungla è studiato per sopravvivere, e sopravvivere nel posto più affollato del pianeta: la più alta concentrazione di forme di vita differenti per metro quadrato ognuna delle quali altamente specializzata, finemente adattata per difendersi e allo stesso tempo approfittare delle mille risorse che offre l’immensa biodiversità che la circonda, in un delicatissimo e precario equilibrio con tutte le altre.

E’ grazie a questa incredibile competizione per la sopravvivenza che si sono sviluppate forme di vita complesse e affascinanti come in nessun altro luogo della Terra: palme che camminano, alberi che mangiano altri alberi, formiche che come inesorabili eserciti spogliano e fanno a pezzi intere chiome per allevare e nutrire funghi, ranette colorate minuscole e letali, insetti identici a foglie, enormi farfalle mimetiche con grandi occhi sulle ali per ingannare e dissuadere i predatori e più di 550 specie di uccelli tra cui pappagalli e tucani con i loro grandi becchi sgargianti fatti per sbucciare o frantumare scorze di semi.

Una trappola mortale perfetta però se non sai come muoverti. Un labirinto in cui è facilissimo perdere i riferimenti, in cui un piede poggiato troppo in là rischia di sprofondare in un metro di fango, una mano poggiata casualmente può finire su un tronco coperto di spine, o di formiche urticanti, o su un ragno decisamente…grande.

Camminando, qualcuno avanti a me disturba inavvertitamente un nido di vespe ben nascosto sotto una foglia.

Per un attimo infinito sento solo ronzii e pungiglioni che mi bucano dappertutto, chiudo gli occhi e corro. Un intero nido di vespe in faccia e divento in 3 minuti un pallone.

L’avventura prosegue.

Un Caracara, ci avvisa la nostra guida, sta urlando da qualche parte sulle nostre teste. Probabilmente a un centinaio di metri da noi, posato su di un albero molto alto. Victor si avvia rapido e silenzioso in quella direzione scavalcando gli alberi orizzontali al suolo e con gli occhi che scrutano il tetto verde: ommioddio andiamo a cercarlo! Il pennuto continua a chiacchierare in alto tra le cime, sono due!

La foresta tropicale è caratterizzata da una struttura molto particolare e unica nel suo genere. I suoi abitanti infatti la popolano secondo strati orizzontali. Ogni specie di uccello, mammifero, rettile o pianta ne sfrutta una fascia di diversa altitudine,ecosistemi dentro l’ecosistema, completamente differenti.

Victor sa bene che per individuare il Caracara, un timido ma elegante rapace, dobbiamo riuscire a sbirciare in quel incredibile mosaico di fogliame di alberi che crescono l’uno sull’altro, fino a raggiungere la chioma del grande Ceibo ora di fronte a noi.

Ancora qualche grido, e mentre aguzziamo la vista nel silenzio la coppia vola via. Peccato.

Torniamo più vigili sul tracciato, un lungo tratto di fanghi pastosi ci attende.

Victor ci mostra un formicaio brulicante abbarbicato su di un albero e ci appoggia la mano 5 secondi. La solleva piena di formichine che comincia a spalmarsi sulle dita come una crema, poi ce le offre da annusare.

L’odore dell’acido prodotto da queste formiche – ci racconta – tiene lontane le zanzare.

Più in la invece c’è un albero sottile dal fusto insolitamente bianco.

L’albero non ha questo colore – ci spiega – in realtà il suo tronco è completamente rivestito da un fungo. L’epitelio di questo fungo di giorno assorbe la luce e di notte risulta lievemente fosforescente. Anche questo è usato dalle popolazioni amazzoniche per orientarsi di notte nel bosco.

 

Arriviamo agli alloggi leggermente in ritardo per l’almuerzo ma carichi di meraviglie.

Il pomeriggio ci attendono tuffi nel fiume con le liane e un giro in canoa in cerca di uccelli e scimmie.

Per chiunque non sia in grado di saltare o volare da un albero all’altro, i fiumi rappresentano la via più rapida per spostarsi nella foresta fittissima, nonché il modo più facile per avvistare la fauna. E sono naturalmente color fango, non tanto a causa di quest’ultimo come tenderemmo a pensare ma piuttosto dell’alta presenza di tannini che si originano dalla decomposizione delle foglie.

Tre ore di canoa bastano per vedere 5 delle 12 specie di scimmie che popolano la riserva, due specie di Tucano e diversi pappagalli, le Are colorate spiccano sulle cime più alte, monogame e sempre in coppia. A poche centinaia di metri si sentono chiaramente i grotteschi richiami delle scimmie urlatrici. Sulla vegetazione bassa agli argini del fiume i ragni sociali costruiscono intere impalcature di tela, la “colonia” è una macchina efficiente, ha una complessa partizione sociale e ogni abitante al suo interno ha un suo ruolo ed è responsabile di una porzione specifica di questa grande casa comune.

Al tramonto torniamo per la merenda.

Il tramonto nella giungla appassisce rapidamente e lascia il posto al buio. La foresta si trasforma completamente, ai suoi abitanti diurni si sostituiscono quelli notturni e la musica del bosco cambia le sue note. La notte è limpida e guardando il cielo dalle rive del fiume dove il tetto di foglie si apre, il buio perfetto consente di esplorare la volta stellata. Dall’equatore guardare il cielo di notte fa uno strano effetto: tutte le costellazioni a noi familiari sono al contrario e allo stesso tempo si possono individuare da un lato all’altro la stella polare e la croce del Sud.

Siamo incantanti ad ammirare il cielo quando compare Victor armato di torcia: –Listo chicos, andiamo a cercare serpenti e insetti!

Si riparte. Victor ha un occhio incredibilmente allenato a cercare, non gli sfugge nessuna foglia, nessun rametto, nessuna buca. Ci mostra tarantole allerta pronte all’agguato, sanguisughe, insetti dalle forme bizzarre e rane nascoste.

Il safari continua prima di andare a dormire: pipistrelli, falene, rospi condividono con noi le nostre capanne, le cui porte restano aperte sulla selva appena fuori. Dormire coccolati dalla musica brulicante della giungla è un esperienza impagabile.

Sveglia alle 5 la mattina successiva, un tuffo rapido per svegliarsi e si sale in canoa. Le prime luci dell’alba sono il momento migliore per catturare il tran tran mattutino degli uccelli, i pendolari della foresta. Siamo solo io e Victor e lasciamo che la canoa si muova pigra con la placida corrente del fiume, remi in barca, in completo silenzio e con i binocoli allerta. Le scimmie tutt’intorno compiono incredibili acrobazie nonostante i piccoli abbarbicati sulle loro schiene.

Arrivati al ponte, scendiamo a fare due passi lungo un sentiero ascoltando le voci che si chiamano tra le chiome degli alberi. Victor le conosce tutte e piano piano anch’io comincio a riconoscerne alcune; di tanto in tanto ci ingannano le Oropendole in grado di imitare molti altri uccelli.

Torniamo per il desayuno e partiamo tutti insieme con la lancia per raggiungere in 2 ore la Laguna grande di Cuyabeno, una delle 14 lagune che costituiscono il parco. Durante il viaggio ci fermiamo a fotografare un Anaconda verde, il serpente più grande del mondo mentre prende il sole, una famiglia di scimmie urlatrici rosse e il famoso Hoatzin, un uccello dalle forme antichissime. Di tanto in tanto gruppi di pescetti argentati si prestano a danze di nuoto sincronizzato, saltando fuori tutti insieme nella speranza di seminare i voraci piranha che infestano il rio.

L’acqua è molto alta in questo periodo a causa delle incessanti piogge amazzoniche e non riusciamo a vedere la famosa Inia, il delfino rosa con forme preistoriche che vive nel fiume Cuyabeno e motivo per il quale è stata istituita la riserva nel ’79.

Poco male, arriviamo nella laguna grande ed è il momento di tuffarsi nell’acqua cristallina e nera.

Consumiamo il nostro riso e pollo all’ombra di qualche albero sulla riva, mentre lì accanto una colonia di formiche tagliafoglie è impegnata nella potatura di un albero.

Comincia a piovere. Un’altra mezzora in lancia per cercare riparo presso una comunità Siona che vive nella riserva. I Siona sono solo una delle 13 nazionalità indigene che vivono in Ecuador riconosciute dallo Stato, di cui due rifiutano tutt’ora il contatto. Victor ci spiega che alcuni studi stanno cercando di ricostruire i probabili legami storici dei Siona con i Secoya, un altro popolo con il quale condividono l’idioma Siekopaai.

All’asciutto di una casa tradizionale Siona quindi, una ragazza ci mostra come raccogliere e lavorare la Yuca per ottenere il tipico pan de Yuca croccante. Lo mangiamo intorno al fuoco e si riparte in lancia.

Col buio Victor vuole mostrarci i Caimani lungo il fiume, ce ne sono ben due specie nella riserva. Tiriamo fuori le torce per illuminare il rio durante la navigazione. Come trovare di notte un animale perfettamente mimetico come un Caimano? All’improvviso appaiono due fanali arancioni illuminati dalla torcia, eccone uno! E’un giovane lungo poco più di un metro, con gli occhi spalancati e immobile come una statua lungo l’argine. Ci avviciniamo fino ad una manciata di centimetri e -flop!- Con un tuffo improvviso si immerge e sparisce.

Tornando agli alloggi ne vediamo altri 5 o 6, immobili sotto il fascio di luce della torcia, insieme ad un piccolo boide arrotolato in una pianta.

Torniamo infine, dopo una giornata lunghissima, infreddoliti dall’umidità notturna e ad aspettarci zuppe calde e il delizioso maito, Tilapia grigliata all’interno di foglie saporite.

Birretta fresca sotto il cielo stellato e andiamo a dormire nelle culle delle nostre capanne.

La domenica è il giorno dell’addio, 3 giorni fuori dal mondo senza telefoni, internet e disturbi vari si stanno per concludere. Victor ci porta ancora una volta sul fiume, un remo a ciascuno e pilotiamo la canoa verso un angolo tranquillo dove ci arma di canne da pesca e ci incoraggia a pescare i Piranha. Sono superintelligenti e mangiano completamente le esche mordicchiandole dai lati senza mai farsi catturare. Dopo diversi tentativi falliti, abbandoniamo le speranze e ci tuffiamo nel fiume un’ultima volta prima del pranzo e della partenza.

Cuyabeno è una piccola perla, un piccolo pezzetto di una foresta immensa, la più estesa foresta pluviale tropicale del pianeta, che attraversa l’America meridionale coprendo gran parte di Ecuador, Colombia, Perù, Bolivia, Venezuela, Guyana, Suriname e Brasile. Il polmone verde, la chiamano, per essere la più grande fabbrica di Ossigeno della Terra, e depositaria di un quinto di tutta l’acqua dolce di cui disponiamo. Molte sono le popolazioni rurali o ancestrali in Sudamerica che dipendono direttamente dai delicati equilibri e dalle risorse che offre loro la foresta, tutti noi però dipendiamo indirettamente dall’azione di questo ecosistema per contrastare l’effetto sera e mitigare il riscaldamento globale.

Sono molte le minacce alle quali attualmente è sottoposto questo superorganismo verde. Dalla deforestazione e inaridimento del suolo, all’avanzamento della frontiera agricola, alla contaminazione e costruzione di barriere ecologiche al suo interno

Cuyabeno non ne è che un frammento. Tutto intorno alla riserva, la cosidetta area di ammortizzazione, pensata per attutire l’effetto umano ai margini del parco, è sottoposta a continuo sfruttamento da parte delle comunità rurali che vi vivono e non ne rispettano i confini e alla frenetica attività estrattiva di centinaia di pozzi petroliferi che costellano non solo la provincia di Sucumbíos, nella quale la riserva ricade, ma l’intero Oriente ecuadoriano, contaminando acqua, aria e suolo e molto spesso costituendo barriere ecologiche che corrompono l’integrità dell’ecosistema e dei suoi equilibri. Immaginate una gigantesca strada che si addentra nel bosco spezzando la continuità dei rami degli alberi, dei tetti di foglie e di tutti gli strati orizzontali di cui è segretamente costituito.

 

 

L’Ecuador è un paese in via di sviluppo, e questo fatto è di dominio pubblico. Nonostante questo si trova in una condizione economicamente più serena rispetto ai suoi vicini Colombia, Venezuela e Brasile.

Come mai? L’Ecuador sfrutta ormai da diverse decine di anni le risorse petrolifere nel sottosuolo della regione amazzonica. L’oro nero qui in Oriente si estrae dagli anni ‘60 e il primo proprio pozzo fu costruito proprio nella città in cui mi ha condotta il servizio civile, Lago Agrio, dalla compagnia petrolifera americana Texaco (attualmente la canadese Chevrón). Da allora altre compagnie internazionali prima, e quelle nuove di stampo statale dal ‘72 in poi, hanno continuato ininterrottamente a litigarsi gli ettari di Ecuador da bucare. A causa degli scarsi sistemi di monitoraggio ambientale, di inefficienti protocolli estrattivi, e di tecnologie estremamente impattanti, questa attività ha causato e causa tutt’oggi una consistente contaminazione ambientale. Ed è importante sottolineare che dall’ambiente non dipendono solo le meravigliose e bizzarre forme di vita che popolano la selva, ma anche migliaia di vite umane. Le nostre stesse vite. I meceros, le fiammate tossiche, che bruciano costantemente attorno ai pozzi estrattivi, si possono incontrare un po’ ovunque nella zona, così come i laghi di petrolio grezzo che impregnano il suolo, dovuti a perdite dai sistemi di estrazione e trasporto

Nella provincia di Orellana confinante con Sucumbíos, si trova un altro importantissimo parco nazionale ecuadoriano, lo Yasunì, il luogo più biologicamente diverso per kilometro quadrato di tutta la Terra e già riserva della biosfera designata dall’Unesco. Il parco inoltre è anche la casa del popolo Wao, l’ultimo ad essere stato contattato nel paese e due frazioni del quale permangono in isolamento volontario rifiutando il contatto. Una ricchezza quindi inestimabile per l’intero genere umano.

Non tutti sanno che nell’anno 2007 il governo ecuadoriano discuteva la possibilità di raggiungere e sfruttare gli 800 milioni di barili di petrolio stimati presenti nel cuore di questo incredibile hotspot naturale. Ne discuteva mentre ambientalisti e scienziati di tutto il mondo alzavano la voce per esortare il governo a non toccare la riserva. Perché questo ci interessa tutti? Perché l’ignoranza e la disinformazione all’epoca ci hanno portato alla disastrosa situazione attuale, situazione di cui la maggioranza di noi occidentali non è consapevole: nel 2007 l’allora presidente ecuadoriano Rafael Correa lancio l’iniziativa Yasuní –ITT, che prometteva di lasciare integro il sottosuolo del parco e non sfruttare il petrolio al suo interno, in cambio di un indennizzo economico da parte della comunità internazionale, beneficiaria e responsabile tanto quanto lo stato ecuadoriano della protezione di tale risorsa.

Nel 2013 l’iniziativa si dichiarò fallita. La comunità occidentale, la nostra sviluppata e lungimirante comunità, non aveva speso la cifra necessaria a garantire la protezione del parco. Da quel momento iniziò lo sfruttamento e i preziosi ettari di yasunì furono venduti al migliore offerente.

Come imputare a un paese in via di sviluppo, che con le unghie e con i denti anela all’uscita dalla situazione di povertà in cui versano i suoi abitanti, una povertà con soglie neanche lontanamente paragonabili alle nostre soglie di povertà, di aver sfruttato una delle più redditizie risorse in suo possesso per permettere il progresso economico del paese? In Ecuador un “povero” medio vive con 1 dollaro e mezzo al giorno, in Italia lo stesso livello di povertà corrisponde a 30 euro giornalieri.

L’Ecuador, se non altro, ci ha provato.

Di chi è dunque la colpa di aver lasciato che tutto questo accadesse?

Della nostra indifferenza, dico io.

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