La single story della migrazione venezuelana
di Giulia Orlandi, sede di Ibarra
Il giorno 21 gennaio 2019 mi trovavo in una delle aule del Centro Civico “Uscita 23”, nel quartiere Statuario vicino alla stazione dei treni di Capannelle, a Roma. Era l’inizio della seconda settimana di formazione con il CESC Project prima di partire per l’Ecuador con il Servizio Civile. Quello stesso giorno due marce opposte si svolgevano nella città di Ibarra, dove mi sarei traferita di lì a pochi giorni. Motivato dall’uccisione di una giovanne donna incinta per mano del suo ex compagno di nazionalità venezuelana, un corteo di manifestantes por la seguridad mischiava le sue richieste di maggiore sicurezza in città a slogan xenofobi contro i venezuelani. Contemporaneamente, un gruppo di donne manifestava nel Parque Pedro Moncayo al grido di “Todas somos Martha” in ricordo della 35enne stuprata il 13 gennaio a Quito da un gruppo di uomini. Questo articolo prende le mosse da queste due marce, solo all’apparenza svincolate tra loro.
L’omicidio di Diana Carolina (la 22enne uccisa il 19 gennaio a Ibarra dall’ex-compagno) era destinato a suscitare un clamore senza precedenti. Non solo per l’efferatezza del crimine (l’uccisione a sangue freddo di una giovane donna incinta) quanto per l’inquietante modalità con cui era stato compiuto. Per più di un’ora la donna era stata tenuta in ostaggio dall’ex compagno, braccio intorno al collo e pugnale puntato, mentre una folla di curiosi riprendeva la scena con i loro cellulari – immagine che sembra tratta da uno degli episodi distopici di Black Mirror. A separare la folla dalla donna e dal suo aguzzino, un esiguo cordone di poliziotti in giubotto giallo fluorescente, capeggiato dal negoziatore che tentava di dissuadere l’uomo dal compiere il folle gesto. In rete si trovano ancora spezzoni di video che immortalano il momento in cui l’uomo decide di pugnalare la compagna, di fronte agli occhi increduli dei presenti. Finisce così la vita di Diana Carolina, l’inquietante tele-cronaca di un episodio di femminicidio, campo nel quale si distinguono tristemente tanto l’Ecuador quanto l’Italia.
L’omicidio di Diana si inserisce in una congiuntura storica molto particolare per l’Ecuador, ovvero l’esodo dei venezuelani dal paese d’origine e la loro diaspora attraverso l’America Latina. Ed è proprio sul particolare della nazionalità dell’aggressore di Diana che si concentra la stampa ecuadoregna nel traumatico momento del post-omicidio. In un tweet che verrà prontamente rimosso dal suo profilo, l’ex sindaco di Ibarra Alvaro Castillo esorta a chiudere le frontiere per scongiurare l’arrivo di cittadini venezuelani in Ecuador (a quanto pare incitare all’odio a colpi di tweets non va di moda solo tra i politici italiani). Il giorno successivo all’omicidio cittadini infuriati si riversano per le strade di Ibarra, lanciando pietre contro i venezuelani che dormono sulle panchine dei parchi, trascinandoli fuori dalle loro case incuranti se si tratti di donne o bambini, vandalizzando i loro negozi e distruggendo i loro averi. Nella mattinata del 21 gennaio il vicepresidente dell’Ecuador annuncia, come nuovo requisito per i cittadini venezuelani che desiderano entrare nel paese, il certificato apostillato dei loro precedenti penali, richiesta impossibile da soddisfare per chi ha già lasciato il paese e difficile da adempiere per quanti ancora si trovano in Venezuela.
Il dibattito sociale che scaturisce dal femminicidio di Diana Carolina si indirizza automaticamente sulla migrazione venezuelana nel paese. Non solo si invisibilizza il problema della violenza di genere in Ecuador ma lo si strumentalizza per la propaganda xenofoba contro i migranti venezuelani.
La manipolazione di episodi di cronaca per fini politici non è esclusiva della stampa ecuadoregna. Anche nei mezzi di comunicazione italiani molto spesso l’azione di una singola persona (o di un singolo “migrante” se vogliamo) si allarga a macchia d’olio fino a caratterizzare l’intero gruppo a cui l’opinione comune ascrive quella persona. La complessità di ciascun individuo si riduce a una sola categoria di lettura che accomuna tutti indistintamente. Questo fenomeno di estrema semplificazione della realtà può essere definito, prendendo in prestito le parole della scrittrice nigeriana Ngozi Chimamanda Adichie, come “il pericolo della single story”. La single story è la rappresentazione unilaterale di noi stessi per mano di qualcun’altro, che ci intrappola e riduce la nostra complessità di persona ad un’unica dimensione, che permette a chi non ci conosce di etichettarci ancora prima di averci incontrato. “È impossibile parlare della single story senza parlare di potere. Come vengono raccontate le storie, chi le racconta, quante volte vengono raccontate, quante storie sono raccontate, dipendono in ultima istanza dal potere. Il potere è l’abilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di renderla la storia definitiva di quella persona”.
Quando si parla di migrazione è lo status migratorio a diventare la single story di un intero gruppo di persone. La loro personalità si azzera e l’unica categoria di lettura diventa la loro condizione migratoria. A questo punto risulta estremamente facile etichettare questa massa indistinta di persone a seconda dei fini politici perseguiti. Anche quando i migranti ci vengono presentati come un gruppo di persone in condizioni di estrema indigenza, totalmente in balìa delle circostanze e dipendenti dall’intervento di un benefattore esterno, il sentimento di compassione che ne deriva ci allontana ulteriormente dalla comprensione delle loro difficoltà. La single story della migrazione li spoglia della loro umanità e li riduce a stereotipi nei quali non riusciamo ad immedesimarci. Per questo può risultarci tanto difficile poi accettare che un migrante privo di risorse economiche possegga un telefono cellulare (se noi fossimo costretti ad abbandonare il nostro paese non ci porteremmo dietro un mezzo per rimanere in contatto con i nostri cari?) o che una migrante con lo smalto sulle unghie stia effettivamente scappando dalla guerra (laccarci le unghie ci mette forse al riparo dal pericolo?)[4].
La verità è che non esiste il migrante buono e il migrante cattivo, il migrante bisognoso e il migrante approfittatore. Nè esiste il migrante in quanto tale. Esiste una persona che si trova a vivere in una condizione di migrazione – condizione che non azzera tutte le altre caratteristiche che lo definiscono come persona. Questo è il punto di partenza per riscoprire l’umanità che ci accomuna, per provare empatia (non compassione!) nei confronti dei migranti e per capire la fatalità di circostanze di cui potremmo essere noi stessi vittime un giorno. Nel caso di Diana Carolina, la nazionalità del suo aggressore è stata trasformata dai media locali nella single story dei migranti venezuelani. Il sillogismo degli abitanti di Ibarra è stato immediato: l’aggressore era di nazionalità venezuelana, tutti i venezuelani sono aggressori. In realtà il pericolo della single story è costantemente in agguato per ognuno di noi: chi leggerà questo articolo potrà facilmente categorizzarmi come “servizio civilista”, “giovane”, “italiana”, “donna”. La verità è che io sono tutte queste cose, ma nessuna di esse in maniera esclusiva. Ridurmi a una sola di queste categorie cancellerebbe di un colpo tutte le altre identità che contribuiscono a rendermi chi sono.
La mia esperienza di Servizio Civile a Ibarra mi rimanda costantemente all’Italia, offrendomi nuove chiavi di lettura e un punto di vista più lucido e distaccato rispetto a quando ci si trova costantemente immersi nella cronaca del proprio paese. In questo caso, le similitudini tra il caso ecuadoregno e quello italiano sono evidenti: la strumentalizzazione di fatti di cronaca per la propaganda razzista, la stereotipizzazione dei migranti, l’utilizzo delle reti sociali come enti propagatori di odio, gli appelli alla sicurezza che si trasformano in lasciapassare per politiche xenofobe. Il 21 gennaio a Ibarra il nome di Diana Carolina è stato invocato tanto dai manifestantes por la seguridad (e contro i migranti venezuelani) quanto dalle donne che protestavano contro la violenza di genere sotto lo slogan di TodosSomosMartha. Cacciare dalla città i migranti venezuelani è davvero la soluzione per scongiurare nuovi femminicidi in Ecuador? Per quanto mi riguarda, collegare la violenza di genere a una nazionalità e/o status migratorio produce il medesimo risultato, indipendentemente al paese in cui ci troviamo: quello di minimizzare il problema, evitare di aprire un reale dibattito intorno al tema e trovare un facile capro espiatorio verso cui canalizzare l’indignazione delle persone.