La quarantena sulle Ande dell'Ecuador
di Alessio Pievaroli
Quello che sta succedendo in Ecuador, in particolar modo nella regione del Guayas è sotto gli occhi di tutti. Il Covid-19 ha messo in ginocchio il mondo e non ha di certo risparmiato il piccolo stato Sudamericano, secondo solo al Brasile per numero di morti. L’intento di questo scritto non sarà dunque quello di ricostruire la situazione che il paese sta attraversando, già fatto da numerose testate nazionali e internazionali. Qui si vuole dar spazio a quelle voci più remote, quasi abbandonate, che riecheggiano dai 4000 metri delle Ande centrali del paese. Sono le voci degli “indigeni”, dei kichwa, il settore rurale, la gente con la quale ho condiviso la mia vita quotidianamente negli ultimi due mesi prima di essere rimpatriato.
Nel corso dei mesi ho imparato ad apprezzare i loro usi e costumi ed ho osservato attentamente e silenziosamente il loro modo di vivere. Scrissi un articolo il mese passato che parlava proprio del loro approccio comunitario della vita. Per le popolazioni di quei luoghi remoti, che vivono soprattutto di agricoltura di sussistenza, l’importanza del mercato e del baratto è vitale. Venendo questo a mancare, anche la loro concezione della vita quotidiana viene stravolta. È proprio per questo motivo che, da quando sono ritornato a casa, il mio pensiero va sempre lì, a loro, a quelle comunità così unite ma allo stesso tempo fragilissime. Cerchiamo di rimanere in contatto tramite messaggi ed ogni giorno attendo in pensiero le loro risposte per ore, vista la scarsità di segnale e l’alto costo degli abbonamenti ad internet che li rende inaccessibili ai tanti. Stanno bene per ora ma le prime conseguenze della quarantena iniziano a farsi sentire.
Nancy, ragazza indigena della comunità di Cocha Colarada, trascorre le giornate, scandite dalle notizie della radio locale, in casa con la famiglia. Esce solo per lavorare la terra e badare alle cinque pecore, che rappresentano la base economica del suo nucleo familiare. Nonostante i “soli” 30 casi registratisi nella provincia di Bolivar, Nancy ha paura e non solo per la sua salute. Teme che il raccolto di quest’anno non possa essere abbastanza, o meglio abbastanza variato per il sostentamento della sua comunità e della sua famiglia. Inoltre, come tutti gli altri, non ha più entrate (esclusi i 60 dollari che lo stato dà mensilmente come bono ad ogni famiglia), né tantomeno la possibilità di poter comprare o scambiare altri prodotti da quando hanno abolito la feria (il mercato aperto) che tutti i mercoledì si teneva a Simiatug, il centro urbano più vicino, e che rappresentava un momento di incontro e di scambio di fondamentale importanza per tutte le comunità della zona. Immagino me e la mia famiglia senza un supermercato; poi torno a chiederle se ci siano ancora posti dove poter comprare del cibo. Scopro che sono rimasti aperti due piccoli alimentari che vendono solo riso, olio, sale e pochi altri prodotti indispensabili e si trovano a due ore a piedi da dove vive.
Nancy mi racconta inoltre che non tutti rispettano il quedate en casa. Vede gente uscire come prima e quando provo a chiedergli spiegazioni lei mi risponde che alcuni sono costretti perché hanno la terra lontana dalle loro case, altri invece proseguono con la “vita normale” perché pensano che sia una sciocchezza. Non danno troppa importanza alle indicazioni ricevute e secondo lei questo è dovuto al fatto che in generale c’è poca informazione riguardo al virus. Dopo questa affermazione anche io inizio a pensarla come lei, d’altronde i messaggi che mi arrivano dagli altri locali sono in gran parte catene sugli effetti miracolosi del limone e bicarbonato per combattere la pandemia.
Un’altra testimonianza mi arriva da Glenda, una ragazza che vive proprio a Simiatug, uno dei pochi centri urbani della zona. Qui il problema più grave è rappresentato da tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non hanno accesso diretto alla terra. Sono loro i più vulnerabili della comunità in questo momento. Glenda mi spiega che sono più o meno trecento le persone che si trovano in questa condizione, in maggioranza anziani che non hanno più le forze per poter svolgere i lavori nei campi. Io, dall’altra parte dello schermo, vado in ansia e le chiedo se hanno già pensato a come aiutarli. Lei, fortunatamente, mi fa capire che il virus, nonostante abbia rivoluzionato il loro modo di vivere, non ha intaccato il loro forte valore di comunità. Quello no. Quello è rimasto ben radicato e lo dimostra il fatto che in molti si stanno adoperando in grupos de ayuda (così li chiama Glenda) per donare parte del loro raccolto a queste persone attraverso veicoli autorizzati che passano casa per casa. Lo Stato non aiuta, ma non importa. C’è l’associazione locale dei piccoli produttori biologici (ENERSIM) che distribuisce i prodotti orticoli alla fetta più vulnerabile della comunità.
Questa notizia mi riempie di gioia.
Penso. Rifletto.
Sono molto fiero di loro. Penso che dove non arriva lo Stato, dove non arriva la grande distribuzione, arriva la solidarietà, la comunità. Faccio un sospiro di sollievo e riacquisisco fiducia nel genere umano.
Ripenso. Rifletto di nuovo.
Penso di essere fortunato, molto fortunato. Penso che ognuno di noi nel suo piccolo possa in qualche modo contribuire alla causa. Penso che sia arrivato il momento di avere fiducia, armarsi di pazienza, rimparare ad ascoltare ed essere solidali.
Rifletto. Riflettiamo. Abbiamo tutti molto tempo per farlo.