La Merced de Buenos Aires no se rinde

di Sofia e Simone - Sede di Ibarra, Ecuador

Torniamo a Buenos Aires (canton della provincia di Imbabura, Ecuador) dopo sei mesi, la condizione della strada sembra essere estremamente migliorata. Questa volta ci accompagna un raggio di sole che cambia completamente il paesaggio. La Presidenta del GAD Parroquial ci accoglie nel suo ufficio e riprende da dove ci eravamo lasciati. Nella nostra prima visita nel mese di novembre era appena stata eletta e ci aveva ricevuti nel parco adiacente al suo ufficio, un’area orgogliosamente recuperata grazie ad una minga comunitaria che aveva ridato colore ad uno spazio non più utilizzabile. Lì, in pieno centro all’aria aperta, ci raccontano la storia della comunità e dell’impatto nella vita quotidiana dall’arrivo dei minatori. Nel 2017, La Merced de Buenos Aires viene rapidamente invasa da forestieri in cerca di fortuna che nel giro di pochissimo tempo si moltiplicano e rendono la comunità invivibile. La resistenza comincia ad organizzarsi sotto il collettivo BUPROE. La situazione degenera rapidamente la notte del 19 giugno del 2019, nel settore del Cerro El Lomòn, dove si era formato un accampamento di più di 10’000 minatori. Intorno alle 4 del mattino, comincia una lunga sparatoria di più di sei ore per la disputa del territorio che si trasforma rapidamente in una mattanza. Ad oggi, non si conosce il numero di morti. La maggior parte dei corpi sono stati gettati dentro piscine di cianuro e si suppone che gli altri siano riposti in fosse scavate per le attività di esplorazione miniera. In questo momento estremo, il Governo agisce con un intervenzione militare e dichiara lo stato d’emergenza per sgomberare il campamento. Sembra tornata momentaneamente la pace a Buenos Aires. La Presidenta e i cittadini affiancano la polizia nell’attività di sorveglianza all’ingresso del paese per impedire l’accesso a minatori ed estranei. Nonostante i controlli serrati all’ingresso, in più di un’occasione i minatori illegali vestiti da operatori dell’azienda australiana Hanrine hanno provato ad entrare ma non sono riusciti a passare.

Nel maggio del 2021, bus della polizia supportano l’ingresso dei 30 camion dell’azienda miniera Hanrine a La Merced de Buenos Aires ma la comunità si oppone pacificamente. Restano lì per tre mesi, organizzandosi per cucinare e dormire, dandosi il cambio, inamovibili.

Alle tre di notte del 3 agosto del 2021, inizia la tragedia che li segnerà per tutta la vita. Le donne creano una barriera umana, legate tra di loro da un telo intrecciato tra le braccia. Gli uomini supportano il cordone umano. 800 unità della polizia sfondano il cordone umano, strattonando, picchiando e aggredendo chiunque si interponesse al loro ingresso, senza far distinzione tra giovani ed anziane. Le ripercussioni emotive e psicologiche di quella notte sono ancora vivide, le anziane non hanno più fiducia nelle forze dell’ordine e ripongono la protezione del territorio nelle mani della Presidenta.

In quell’ufficio si crea un’atmosfera di fiducia, di quelle che porta ad aprirsi nel modo più intimo e come per liberarsi di un peso, di quelli che gli altri mettono sulle tue spalle con buone intenzioni, ci confida che quell’assenza di paura per la quale si complimentano e ringraziano i suoi sostenitori, è solo una facciata. Nel modo più sincero, quasi per liberarsi di quel fardello da nascondere ogni giorno, dice che lei sì, ovviamente ha paura, ha paura di uscire dal suo ufficio e non tornare più, ha il terrore che possa succedere qualcosa a suo figlio e alla sua famiglia come ritorsione contro di lei.

Ci racconta che un giorno, entrando in una tiendita, nascosta sotto il suo poncho e il suo cappello, ben coperta per mascherare il freddo, si imbatte in un discorso tra dei presunti minatori che stavano pianificando la miglior strategia per toglierla dai piedi ed avere via libera per continuare con le attività di mineria. Non è uscita di casa per più di un mese e oggi è sorvegliata e accompagnata dalla scorta (nella quale comunque non ripone troppa fiducia visto l’ambiente di corruzione che la circonda).

Rivela che quando viene invasa da un senso di sconforto, trova forza nel padre, morto qualche anno fa, che l’ha sempre sostenuta nella difesa estrema del territorio. È ben consapevole dei rischi che corre, e non è disposta a scendere a compromessi, ci mette la faccia, l’anima e la vita intera per far sì che i giovani, i bambini e i futuri arrivati possano godere di quel paradiso dove una volta si viveva tranquilli e spensierati dedicandosi ad attività di agricoltura e allevamento. Lucia Chicaiza ha 29 anni e ci mette la vita “e se un giorno sparirò che resti la testimonianza scritta che mi hanno uccisa per difendere il mio territorio, per non scendere a compromessi e per aver cercato di lasciare un’ambiente sano alla mia comunità”.