La condizione femminile ai tempi della pandemia: uno sguardo all’Ecuador e all’Italia.
di Agnese Boggi, volontaria SCU 2020, sede di Quito
L’umanità sta vivendo una delle emergenze più drammatiche dell’ultimo decennio. Un’emergenza che sta scuotendo i non-equilibri del sistema capitalistico, puntando i riflettori su tutte le incompatibilità che tale sistema ha con l’universo.
L’emergenza coronavirus, infatti, non solo rappresenta un’emergenza sanitaria, dove la spinta alla privatizzazione ha ridotto il diritto alla salute ad un prodotto da vendere al miglior offerente, dove gli interessi del capitale determinano il diritto alla vita. L’emergenza sanitaria cammina a fianco dell’emergenza ambientale, sociale, politica ed economica.
Un’emergenza dove ancora una volta i dannati della terra come i poveri, i precari, i terremotati, i senza tetto, i migranti, i bambini e le donne sono i meno tutelati e i più dimenticati.
Come ci invitano a riflettere le compagne curde l’importante è non tornare alla normalità “perché la normalità era il problema”. Se solo si fosse capaci di cogliere la “bellezza collaterale” di ciò che sta accadendo si avrebbe la capacità di non tornare alla normalità ma costruirne una nuova, nella consapevolezza che l’attuale non è l’unica possibile.
La libertà della donna, rappresentando questaprimissimo gruppo sociale ad essere stato represso, umiliato e schiavizzato, rappresenta oggi il punto di partenza per la costruzione di un nuovo modello sociale, economico e politico, un modello democratico ed ecologico.
Non a caso le donne, durante questa emergenza, rappresentano una delle categorie più a rischio per molteplici ragioni ed è per questo necessario, come sottolinea ONU Mujeres, includere nella risposta all’emergenza Covid-19, una prospettiva di genere. Le donne effettuano i principali lavori di cura, lavori come badanti, baby-sitter, lavori domestici; lavori la cui richiesta, a fronte dell’emergenza, sta calando drammaticamente e che, essendo nella maggior parte dei casi informali, non assicurano alcun tipo di diritto e tutela. Le donne rappresenteranno così una delle principali vittime dell’impatto economico.
A tal proposito la ricerca El genero del trabajo (CiCCEP 2019), analizza il legame tra il ruolo di cura delle donne nella società e la loro presenza nel mondo del lavoro informale, sostenendo che il sovraccarico affidato alle donne nel lavoro di cura, la gran parte non retribuito o sottopagato, incide in modo sostanziale nell’irregolarità lavorativa.
Il protagonismo delle donne nel mondo del lavoro a nero, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, viene confermato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, la quale afferma che in America Latina e nel Caribe sono circa 126 milioni le donne che hanno un lavoro informale, ovvero quasi la metà della totale popolazione femminile. Lavoratrici invisibili, senza alcuna protezione sociale.
Inoltre, in moltissimi casi, le donne sono le uniche a provvedere al mantenimento della propria famiglia: unendo questi due aspetti possiamo ben capire quanto diverrà sempre più difficile per queste persino provvedere al soddisfacimento dei bisogni primari.
Questa condizione riguarda anche le lavoratrici sessuali le quali ad oggi, vedono la richiesta lavorativa diminuire notevolmente; con meno lavoro e nessun diritto diverrà sempre più difficile anche per loro provvedere al proprio sostentamento e a quello delle proprie famiglie.
A seguire le donne giocano un ruolo centrale come professioniste della salute: secondo i dati delle Nazioni Unite esse rappresentano circa il 75% del personale sanitario. Ciò comporta un maggior rischio di contrarre il virus, data la mancanza di dispositivi di sicurezza anche negli ambienti ospedalieri, un forte sovraccarico lavorativo, alla luce dell’insufficienza di personale, ed emotivo. Il burn-out diviene così una patologia ad altissimo rischio all’interno della popolazione femminile.
E’ stato dimostrato, inoltre, che a fronte di una crisi, soprattutto di tipo sanitario, come quella che stiamo vivendo, le donne hanno un minore accesso alla salute sessuale e riproduttiva. Questo deficit può diventare drammatico soprattutto in quei paesi dove già questi aspetti rappresentano delle criticità e dove le donne sono costrette a lottare tutti i giorni per il riconoscimento dei propri diritti riproduttivi fondamentali come ad esempio il diritto ad ottenere un aborto legale e sicuro, il diritto alla contraccezione, ad un’assistenza sanitaria riproduttiva di qualità, ad un’informazione adeguata sulle malattie sessualmente trasmissibili e alla protezione dalle pratiche di mutilazione genitale femminile (FGM).
Infine, risulta tristemente innegabile quanto in momenti di crisi aumenti ovunque la violenza intra familiare. A tal proposito prenderò in considerazione il mio paese nativo, l’Italia, e l’Ecuador, territorio dove ho avuto l’onore di effettuare l’esperienza di servizio civile, un’esperienza che nonostante sia stata interrotta bruscamente, mi ha dato la possibilità di venire a contatto con una realtà nuova, dove ho riscoperto con maggiore forza la bellezza della condivisione, il rispetto e l’amore per la terra, per la diversità e per l’umanità. Due mondi distanti geograficamente, socialmente e culturalmente dove però la violenza intra familiare rappresenta un comune denominatore; dove la casa, la quale oggi più che mai dovrebbe rappresentare il luogo sicuro, rappresenta invece il luogo della paura e dell’abuso.
In Italia dal 2 marzo al 5 aprile sono 2867 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza, con un aumento, rispetto allo stesso periodo nell’anno passato, del 74,5%. Il 28% di queste non si era mai rivolto prima ai servizi D.i.Re (Donne in rete contro la violenza). Sempre secondo i dati forniti dai centri antiviolenza, il 95% dei maltrattamenti subiti dalle donne italiane avviene nell’ambiente casalingo. Molto spesso la violenza si traduce in morte: nel 2019 in Italia, secondo i dati del rapporto Eures 2019, Femminicidio e violenza di genere, ogni tre giorni è stata uccisa una donna e a crescere sono stati soprattutto i delitti compiuti in ambito familiare. Nel 2020 la situazione non migliora: a gennaio 2020 cinque donne vengono uccise in soli due giorni, sei in una settimana, tutte per mano dei propri partner. Il femminicidio, questione strutturale più che emergenza nazionale, non si placa certo ai tempi del coronavirus: le vittime continuano a crescere, tra queste Lorena, Larisa, Barbara, Bruna e Rossella.
Volgendo lo sguardo al Sud America, continente caratterizzato da una società fortemente maschilista, e in particolare all’Ecuador, la situazione non migliora: ogni 71 ore avviene un femminicidio e più del 60% di questi avviene per mano del partner. Secondo l’ultima relazione sulla violenza di genere, nel 2019 in Ecuador il 70% delle donne ha subito una violenza fisica, psicologica e/o sessuale, per un totale di 52.808 denunce. Inoltre, considerando che, secondo l’Insituto Nacional de Estadistica y Censos (INEC), l’81% delle donne non denuncia l’aggressione, possiamo considerare i dati delle sottostime. Anche qui ai tempi del Coronavirus la situazione non migliora: nelle prime due settimane di isolamento sono state più di 580 le denunce per violenza intra familiare, circa 23 casi al giorno. Le provincie più interessate sono Pichincha e Guayas, a seguire quella di Santo Domingo, Ambato e Duràn.
Il governo ecuadoriano ha predisposto due linee telefoniche per richiedere aiuto nel caso di maltrattamento (911 e 18000); purtroppo il servizio risulta insufficiente poiché ci sono moltissime donne che hanno una profonda difficoltà ad effettuare la chiamata data la condizione di totale isolamento fisico ed affettivo e il continuo controllo da parte del compagno. La difficoltà è maggiore nelle situazioni di svantaggio economico: come afferma Ana Vera, avvocata di Serkuna, le donne più povere sono le più soggette a vivere la violenza e sono le più incapaci a reagire poiché non hanno négli strumenti economici, né quelli sociali per ribellarsi a questa condizione. Il virus, inoltre, le costringe a vivere in ambienti piccoli ed insalubri, molto spesso prive di un cellulare o di un credito all’interno di esso.
Nonostante i servizi di aiuto messi in atto sia in Italia sia in Ecuador dai rispettivi governi mancano risposte strutturali al problema che diano ad esso la giusta priorità.
La risposta alla violenza di genere sarà una risposta solo se sarà costruita dalle donne stesse e se porterà alla trasformazione della condizione femminile in tutto il pianeta. Andrà tutto bene se quindi la prospettiva di genere ricoprirà in questo processo rivoluzionario un ruolo centrale. Come afferma il grande pensatore e politico Abdullah Ocalan, la liberazione dei popoli parte della liberazione della donna.