Impressione e realtà
di Rosalinda Malsegna e Annalisa Calabrese
Le percezioni che abbiamo sulle cose sono sempre ben diverse e distanti dalla realtà, soprattutto quando si tratta di culture. Questo a causa dei contenuti che riceviamo attraverso i mezzi d’informazione, o, per chi è più curioso, a seconda dell’approfondimento trovato su un dato argomento.
La parola “Africa” a molti fa pensare a quella parte del continente meno sviluppata, ma personalmente ha sempre destato un immaginario infinito di colori, suoni, balli, sapori, provati attraverso film, libri, fotografie e storie che riguardavano quel lontano mondo.
Ma, nelle riviste o nei libri sulla cultura africana, o meglio della Tanzania, non scrivono quelle cose che lascerebbero perplesso un occidentale. Per esempio: i tanzaniani non festeggiano i compleanni, in quanto per loro non è una data importante da ricordare; non hanno l’usanza di dire buon appetito a tavola, perché per loro il cibo è quell’elemento che serve solo a sfamarli; il canone di bellezza è diverso rispetto a quello occidentale poiché le donne molto formose sono più apprezzate rispetto a quelle che non lo sono.
D’altronde ogni cultura ha le proprie peculiarità, infatti non esistono canzoni in lingua specifiche per il compleanno, tuttavia hanno canzoni per ogni tipo di evento.
Per esempio, la sera in cui siamo arrivati al Centro Tumaini siamo stati accolti con canti e balli tradizionali. Allo stesso modo, un pomeriggio un gruppo di studenti provenienti dalla scuola di Njombe, una città poco distante da Ilunda, ha fatto visita al Centro per portarvi delle donazioni e hanno cantato almeno cinque canzoni accompagnate da balletti per salutare. Durante il corso di lingua ci sono state insegnate delle canzoni, tra cui alcune per ringraziare e salutare i docenti, le suore del Centro e le cuoche che cucinavano tutti i giorni per noi.
Per non dimenticare, i canti dedicati a Dio sono spesso seguiti da una bella movenza dei catechisti e da una semplice coreografia eseguita dai più piccoli per la celebrazione.
Sono rimasta colpita quando, per studiare le parentele in swahili, l’insegnante ci disse che dada significa sorella, ma è un termine che viene usato anche tra le altre parentele e non, come per nominare la donna che, nel nostro mondo, chiamiamo baby-sitter. Allo stesso modo, la signora che si occupa della preparazione del pranzo per noi, civilisti, e la pulizia dei nostri spazi la chiamiamo dada Maria, e così la chiamano anche tutti coloro che frequentano il Centro, le maestre dei bambini alle materne, le suore e le mami. La stessa cosa è per fratello, che si dice kaka, e mami, che sta per mamma, viene usato anche per chiamare la propria zia, così come le donne che vivono con i bambini e si occupano di loro.
Ovviamente in swahili esistono i termini specifici per definire zio, zia, cugino o cugina, ma sono usati nelle vesti informali. Penso sia un modo affettuoso per chiamare persone care, e trovo la cosa particolarmente bella, il non definire le identità parentali ma renderle univoche, proprio perché la mami, la dada o il kaka sono quelle persone che si prendono cura del più piccolo.
Quindi, che differenza c’è tra un fratello di sangue ed un ragazzo che ha la medesima attenzione nell’aiutare l’ultimo arrivato a casa a raggiungere la propria autonomia?
Un’altra cosa che mi ha affascinata, sempre studiando la lingua, è che esiste il plurale per ogni cosa, anche per quelle parole generiche, come: prego, grazie, salve. È come se con delle parole così semplici si vogliano riconoscere una o più persone.
Invece, andando per i negozietti, ho notato che le commercianti mi facevano un piccolo inchino, tendendo verso di me la busta della spesa, oppure, quando eravamo a passeggio per il villaggio, molte persone ci salutavano con Shikamo, che è un saluto formale e generalmente viene detto alle persone anziane o a persone qualificate come dottori, insegnanti, suore, per portare rispetto alla loro età o alla loro professione. Alcune volte mi è capitato che un anziano mi salutasse con Shikamo, lasciandomi basita. Ricordo, durante il corso di formazione prima della partenza, che i formatori ci dissero di come i bianchi siano considerati, dai tanzaniani, superiori a loro, o che ci vedano come delle “monete viventi”, e allora non mi sono sentita per niente grata nel vivere queste scene.
Tuttavia, la cosa che mi ha meravigliato più di tutto, e da cui traggo un grande insegnamento, è la disponibilità dei ragazzi più grandi nell’aiutare le loro mami per i lavoretti domestici o badare ai più piccoli, così come la loro infinita voglia di studiare sempre di più, nonostante molti di loro frequentino la scuola sette giorni su sette.
Questa è la bellezza del mondo, quando si ha la possibilità di avvicinarsi a quelle culture diverse dalle proprie, e avere l’opportunità di mettervi piede e capirne le loro gestualità.