IL MIO SERVIZIO
Viaggio alla metà della terra

Francesca Curreri, SCU Ecuador 2023-2024

Il Servizio Civile all’estero: presentato all’università come una delle molte opportunità di mobilità internazionale che, per tante e tanti come noi aspiranti cooperanti, avrebbero permesso di dare un po’ di pratica alla teoria, un po’ di “campo” agli “studi”, un po’ di “esperienza” all’“ideale”; desiderato come non mai, nel periodo di picchi epidemici che costringevano (i miei) spazi, dilatavano i (miei) tempi, moltiplicavano (i miei) dubbi ed incertezze, esasperavano le mie ricerche per il futuro; scoperto, per quello che è realmente, al primo tentativo di candidatura: una “scelta” di coscienza, con una storia potente, una responsabilità, un modo di intendere me, il mondo e le sue (inter, intra)relazioni, un privilegio, un’opportunità, la possibilità che ne avrebbe racchiuse altre mille; discusso, quasi rifuggito, dopo essermi vista diventare per la prima volta, giovane com’ero, una “candidata idonea non selezionata”; ritrovato, dopo che la mancata possibilità mi aveva già portato altrove, in Grecia, poi di nuovo in Italia, a toccare con mano (udito, olfatto, cuore) la realtà delle migrazioni verso l’Europa; accolto, senza tutte le aspettative della Me universitaria, senza il vecchio terrore di fallire, come “scelta” e non più “esperienza” di Cooperazione: Cooperazione che fosse realmente “Popolare”, desde abajo y desde adentro.

 

L’ho accolto scegliendo di meravigliarmi di tutto, soprattutto delle cose ovvie, delle cose banali, quelle sapute eppure mai realmente immaginate: i guazzabugli burocratici per l’ottenimento di un visto, una spaghettata cacio e pepe il primo giorno di formazione con i miei futuri compagni e compagne volontarie, le effettive dimensioni di un aereo intercontinentale, la mia nuova città, Quito, e il mio nuovo Paese – un Paese che sorge sulla “Mitad del Mundo”, senza “vere” stagioni, con le stesse ore di luce e di buio tutto l’anno, un Paese con tanti climi, con tanti visi, “hispanohablante” eppure pieno di quichuismi.

 

E l’ho accolto e continuo ad accoglierlo, anche nelle sue difficoltà, ogni giorno di servizio al JRS, Servicio Jesuita a Refugiados, una ONG internazionale attiva in tutto il Paese che si occupa di offrire servizi alle persone in situazione di mobilità umana, provenienti soprattutto da Colombia e Venezuela. Qui contribuisco a coordinare e monitorare i progetti nazionali rivolti alle persone migranti: la maggior parte delle mie attività si svolgono negli uffici della sede centrale (teatro di mille interazioni, mille storie, persone e personaggi), anche se in questi mesi non sono mancate “incursioni” sul campo e attività operative – tra visite di monitoraggio, fiere imprenditoriali, supporto educativo ai bambini e alle bambine accolte in Casa di accoglienza, workshop alle famiglie ed eventi istituzionali.

 

Qui, per Quito, a casa – il Servizio è una scelta integrale, l’incontro-scontro è un’esperienza perpetua: d’altra parte l’Ecuador, fatto di così tante culture, cerca di accoglierne altre. A volte fa fatica: noi europei, “gringos” al pari degli statunitensi, provenienti da un mondo che ai loro occhi (e poi “loro” chi?) si mostra unico e perfetto – “gringos” da accudire e proteggere, sfoggiare, sfidare allo stesso tempo; gli “ex-fratelli” della Gran Colombia, vicinissimi (per noi, che siamo abituati a confrontarci con migrazioni ben diverse) eppure visti più spesso lontani, stranieri – più stranieri di noi. A volte c’è diffidenza, a volte una forte curiosità preconcetta, molte altre genuina stima e affetto. E noi? Noi occidentali, europee, europei, italiani, piemontesi, emiliani o siciliani, di città o di provincia, “bianchi” anche quando ci vediamo scuri, sempre bruciati sotto il sole dell’Equatore, con i nostri accenti strambi, italianismi, spagnolismi “coloniali”, e l’etichetta universale dei “gringos” – “Noi”, insomma, come dimostriamo di vedere “Loro”?
Da operatrici e operatori volontari, di fatto al servizio dello Stato italiano, ma più precisamente della sua Costituzione, come guardiamo, come parliamo, come ci mostriamo con le persone con cui interagiamo, nel Paese dove sono nati, cresciuti, rimasti una vita intera o appena arrivati? Quanto spesso ci ricordiamo di come tutto è iniziato? Delle “scelte di coscienza”, o delle aspettative, delle disillusioni, delle incoscienze iniziali che eravamo pronti a superare?

 

Fare Servizio è una domanda continua. Ogni tanto si va tanto veloci da dimenticarsi di cercare risposte; a volte ci si ferma e ci si torna a meravigliare. L’emozione arriva quando ci si rende conto di non potersi immaginare in nessun altro posto che non questo, aver scelto altro che non fosse questo, o sentire la certezza che questo mio tempo qui, per temporaneo che sia, avrà cambiato anche il corso delle mie scelte future.


Oggi, a fianco a quello che è rimasto del villaggio dei minatori che lavoravano lì (la chiesa, qualche casa, un capannone, un campo da calcio…) sorge il cimitero di Milluni, dove sono sepolti i minatori con le loro famiglie e i soldati che si sono trovati sotto ai bombardamenti.
Il cimitero sorge a 4.450 metri s.l.m. e ha un’atmosfera molto particolare: quando si passa tra le sue tombe si percepisce un’energia molto forte, è una strana sensazione difficile da descrivere, bisogna andarci per poterlo capire. Purtroppo con il passare del tempo le tombe sono state saccheggiate, alcune sono completamente distrutte e si dice che in questo cimitero si pratichino incantesimi di magia nera.
Si trovano infatti resti di foto strappate o bruciate, candele nere consumate a metà, resti di fuochi accesi con accanto vestiti bruciati…
L’atmosfera particolare del cimitero, che non è delimitato da mura ma sorge su una piccola collina, è data anche dal territorio che lo circonda, ricco di piccoli ruscelli che scendono direttamene dal ghiacciaio del Huayna Potosí dove si abbeverano spesso gruppi di lama. Diverse sono anche le lagune, di varie dimensioni, le cui acque vengono sfruttate per portare l’acqua a una parte de El Alto (comune a nord di La Paz) e nel quartiere di Sopocachi, dove attualmente vivo. Il colore delle lagune è molto bello, anche se in realtà è preoccupante, perché le loro meravigliose sfumature sono date dalla contaminazione dei minerali estratti dalle miniere limitrofe. Si aprirebbe qui un altro argomento scottante, di cui si potrebbe parlare per ore ed ore, che riguarda le estrazioni illegali, le contaminazioni irreversibili dell’ambiente e tutto quelle che concerne il mondo delle miniere.
Per ora mi limito a raccontarvi questa storia di resistenza alla dittatura del generale René Barrientos Ortuño, che ha lasciato dietro di sé un villaggio fantasma ai piedi del Huayna Potosí.

 

Francesca Curreru, SCU presso la sede di Gondwana JRS, Quito