Covid-19: Un virus tutt'altro che democratico in Ecuador
di Giulia Esposito
I numeri che stanno caratterizzando l’avanzata del virus Covid-19 sul territorio italiano ormai sono noti. Le nostre giornate sembrano scandite dalla conferenza stampa della Protezione Civile delle 18.00 e fin dall’altra parte del mondo, in Ecuador, si è sentito parlare di Codogno: un paesino di neanche 20.000 abitanti in provincia di Lodi. Sebbene all’altezza dell’equatore si sia sentito parlare della Lombardia, qui, nella parte fortunata del mondo, in pochi sanno dell’emergenza che sta dilagando in una provincia ben più piccola rispetto a quella milanese, quella del Guayas nel sud dell’Ecuador e che, nella sua capitale Guayaquil, sta vedendo i suoi abitanti in balia della disperazione più assoluta dovuta al sentirsi completamente abbandonati ad affrontare una pandemia a mani nude. Nessuno Stato in tutta l’America Latina ha raggiunto il numero di morti che gli abitanti di Guayaquil stanno piangendo per le strade, chiamando ambulanze che non arriveranno perché concretamente non ce ne sono abbastanza, chiedendo di essere curati in ospedali nei quali non possono essere ricoverati in quanto completamente sovraffollati.
Ufficialmente alla data dell’8 aprile i numeri indicano 220 deceduti a causa del virus nella sola città di Guayaquil, ufficiosamente si parla di più di tremila salme pronte ad essere seppellite in bare di cartone recentemente donate da La Asociación de Cartoneros de Ecuador per aiutare le famiglie a seppellire degnamente i propri cari, non potendo essi affrontare i costi troppo elevati previsti per un funerale. L’enorme discrepanza dei numeri è principalmente dovuta al fatto che solo una minima parte di coloro che hanno contratto il virus hanno avuto la possibilità di effettuare il test, di conseguenza la maggior parte delle vittime non viene conteggiata fra i morti ufficiali dovuti al virus.
Sebbene il primo caso registrato di Covid-19 (o Coronavirus) in Ecuador risalga al 19 febbraio, lo stato di emergenza dichiarato ufficialmente dal presidente Lenin Moreno è giunto quasi un mese dopo, il 16 marzo, iniziando con la chiusura delle attività commerciali, ad eccezione di quelle considerate di primissima necessità (supermercati, farmacie, banche ecc.), per poi proseguire dichiarando un rigido coprifuoco che permette attualmente ai cittadini di uscire una sola volta al giorno per provvedere ai beni primari con l’obbligo di rientro nella propria abitazione entro le due del pomeriggio. Per quanto riguarda l’uso dell’automobile, è permesso circolare un solo giorno a settimana a seconda del numero della propria targa. Infrangere questo protocollo significa andare incontro a multe che vanno dai 100 ai 600 dollari ma che nella peggiore delle ipotesi possono portare anche al carcere. In uno Stato che si trova a dover affrontare un debito con organismi internazionali per centinaia di milioni di dollari, e che vede il prezzo del petrolio (il secondo bene maggiormente esportato) diminuire drasticamente fino a dimezzarsi, la chiusura delle principali attività commerciali determinerà un duro colpo da affrontare, stimato il 4 aprile con la perdita diaria di 200 milioni di dollari e un contraccolpo all’economia statale calcolata fra il 70-80%, secondo quanto dichiarato dal rappresentante della Camera di Commercio di Quito, Patricio Alarcón.
Sulla base di queste premesse appare così inevitabile prevedere che saranno proprio le fasce della popolazione più vulnerabili quali i disoccupati, i senza una fissa dimora e rifugiati (prevalentemente venezuelani e colombiani) a ricevere il contraccolpo più duro a causa della pandemia, che a sua volta contribuirà ad ampliare così la forbice di disuguaglianza sociale fra ricchi e poveri, già ampiamente estesa. Al di là dell’economia ufficiale dello Stato è fondamentale ricordare che il 60% della forza attiva in Ecuador si basa su attività informali, ossia venditori ambulanti che fanno della vendita di caramelle sugli autobus, di frutta fresca e di Bolón de Verde con caffè nelle strade, l’unica forma di sostentamento per sé stessi e le loro famiglie. Non a caso sono proprio coloro che a seguito dello shutdown del Paese si sono trovati disoccupati dall’oggi al domani, gli stessi che continuano a trovarsi per strada non solo cercando di sopravvivere al virus, ma cercando di farlo destreggiandosi fra le innumerevoli restrizioni imposte dal governo. Qualcuno potrebbe arrischiarsi a definire il Covid-19 un virus democratico. Può contagiare chiunque, certo. Benestanti, campesinos, imprenditori e immigrati. Ma dove si trova la democrazia in un sistema capitalista che spacca uno Stato nel quale si trovano a convivere fianco a fianco cittadini che possono accedere a cure mediche, e cittadini che nonostante possiedano tutti i diritti per poter richiedere assistenza medica si trovano a seppellire i propri cari letteralmente a mani nude? Dove si trova la democrazia se una volta costretto a chiudere la propria attività lavorativa non hai uno Stato che ti garantisca un sostentamento se non dignitoso, che ti permetta almeno di sopravvivere? Quando sei costretto a scegliere se stare in strada rischiando di contrarre il virus ma con la possibilità di portare a casa pochi dollari vendendo carta igienica, o restare in casa con la certezza di vedere i tuoi figli morire di fame, quando la tua condizione sociale definisce concretamente le tue possibilità di sopravvivenza contro un nemico invisibile, tutto si può dire tranne che in Ecuador il Covid-19 sia un virus democratico.