"Baki" - Resta
di Alessandra Maresca, sede di Wanging'ombe
Il mercoledì pomeriggio, da due mesi a questa parte, è diventato un pomeriggio… diverso.
Si parte da casa più tardi, dopo pranzo, e si va nel villaggio di Ilembula, a 15/20minuti dal nostro, Wanging’ombe.
Quando è il mio turno, la mia settimana inizia già dal lunedì con una piccola sensazione di ansia che dallo stomaco risale a poco a poco ad impegnare tutti i pensieri: bisogna assolutamente trovare una attività da far fare a quella sessantina di bambini esagitati.
Per circa un’ora e mezza infatti, ci rechiamo in una scuola di Ilembula che è stata pensata per accogliere tutti quei bambini con una qualsiasi disabilità. In questa scuola superiore è presente un’intera classe riservata a bambini con le più svariate problematiche: ci sono bambini che hanno problemi di vista, motori, uditivi, bambini con sindrome di Down o con Paralisi Cerebrale Infantile e anche tutti quei bambini che nascono con albinismo.
Bisogna tuttavia premettere che in Tanzania la situazione educativa e scolastica è uno di quei campi su cui ancora il paese ha bisogno di investire molte risorse al di fine migliorare sempre di più i servizi e la qualità della propria istruzione. Inoltre, anche la disabilità, nonostante il recente provvedimento attuato attraverso il Disability Act del 2010, è ancora vista come un grande peso e quasi come una “maledizione” o sciagura per ogni famiglia, in particolare per ogni donna che in quanto mamma si prende cura del proprio figlio.
Sebbene agli occhi di noi occidentali possa infatti sembrare decisamente discriminante, retrograda e quasi inaccettabile per il nostro secolo un tipo di educazione differenziale come questa, la possibilità che viene offerta con l’esistenza di una sezione scolastica interamente dedicata a questi bambini e ai loro bisogni, non è assolutamente da rifiutarsi; piuttosto, è da considerarsi l’unica reale occasione per loro di relazionarsi, crescere e imparare con i propri coetanei in una dimensione sociale e di aiuto reciproco.
Ogni mercoledì arriviamo da loro verso le 15 e, la maggioranza delle volte, li troviamo tutti indaffarati a finire il momento del pranzo: c’è chi è indietro e deve ancora finire tutto ciò che ha nel piatto, chi sta già iniziando a sparecchiare, chi a lavare, chi a spazzare per terra e, benché il tutto avvenga secondo una prassi per noi “diversamente ordinata” e che riempie il cuore e gli occhi di tenerezza, non appena qualcuno di loro ci avvista all’orizzonte, ad uno ad uno tutti corrono ad accoglierci a braccia aperte.
Alcuni di loro in modo goffo e tenero corrono ad abbracciarti o a prenderti la mano e non fanno che cercare la tua considerazione, altri ti assaltano da dietro impegnati in una frenetica ricerca della palla per giocare e altri ancora, da lontano, seduti sulle loro carrozzine, iniziano a contorcersi di gioia per salutarti sperando che sia tu ad avvicinarti a loro.
Dopo di ciò, rapidamente, si riprende a riordinare la stanza comune dove spesso si svolge l’attività tutti insieme: disegnare con le matite, fare balli di gruppo, giocare al gioco dei mimi, ad “indovina chi è che ti sta di fronte” solo attraverso il tatto o, semplicemente, mettendo un po’ di musica e colorando i loro volti con i pastelli.
Una delle cose che ogni volta mi colpisce e sorprende è che i bambini che sono in questa scuola svolgono tutte le mansioni in completa autonomia e sono sbalorditivamente disciplinati non appena li si raduna per spiegare un gioco o per dir loro qualsiasi altra cosa.
Mi piace credere che sia anche per il fatto che, diversamente dai bambini italiani, questi amino davvero la scuola.
Tutti i bambini che ancora non hanno raggiunto l’età per iniziarla e che incontro qui infatti, hanno come obiettivo e desiderio il diventare abbastanza grandi, bravi e capaci per poter andare finalmente a scuola: questi bambini amano poter imparare cose nuove e si rendono conto che l’educazione e l’ambiente scolastico sono per loro una grandissima opportunità che non è per nulla dovuta o scontata.
L’ultimo mercoledì che sono stata da loro, proprio nel momento di tornare a casa, sono stata accerchiata da un piccolo gruppetto di bambine con sindrome di Down che tirandomi per la gonna hanno iniziato a dire “Baki, baki, huyu anabaki” (“Resta, resta, questa qui resta”) e, con la loro simpatica testardaggine e dolcezza, hanno trascinato anche qualcuno degli altri bambini: ed erano tanti ad attaccarsi alla gonna o a tirarmi per un braccio chiedendomi nuovamente le matite colorate o l’orologio che ho al polso.
La scuola di Ilembula, ogni mercoledì, prima di doverci andare, è spesso è un’attività pesante, che stanca molto e addirittura che a volte si vorrebbe poter non fare… Ma, sempre, nel tornare a casa, ci si accorge di aver ricevuto molto più di quanto si è potuto donare.
Quei bambini, ognuno nel suo essere esattamente se stesso, mi insegnano che in realtà non esistono tutte le differenze e i pregiudizi con cui parto da casa prima di andare a trovarli: infatti, sebbene la loro diversità sia così evidente ai miei e agli occhi di tutti, non riesco a non vedere in ognuno di loro una somiglianza con qualche frammento di me.
Mi insegnano che le cose vengono bene anche se non sono fatte in modo perfetto, ma piuttosto è importante che siano fatte tutti insieme.
Mi insegnano che i valori che si imparano a scuola, come la cultura ma anche la condivisione e il non lasciare indietro nessuno, sono valori troppo importanti perché permettiamo che vengano dimenticati.
Mi insegnano infine che anche io ho ancora bisogno di “scuola” perché in fondo, tutti noi, chi più, chi meno, siamo in qualche modo frammentati e manchevoli di qualcosa…
E l’unica vera differenza tra noi e loro pertanto, sta forse solo nel fatto che loro, non potendo nascondere le loro crepe, si mostrano autentici senza dover nascondere la loro fragilità.