Figli dello stesso mondo
di Francesco Bendetti
Prendendo quel poco coraggio, undici mesi fa ho deciso di partire per l’Africa, precisamente per la Tanzania, per raggiungere finalmente quella terra lontana di cui tanto avevo sentito parlare durante il Servizio Civile provinciale che avevo svolto l’anno precedente presso il Centro Astalli di Trento, dove spesso mi ritrovavo a conversare con i molti ragazzi richiedenti asilo e rifugiati con cui lavoravo.
Appena ho messo piede sulla terra africana, il sole mi ha bruciato gli occhi e mi sono subito accorto che fino ad allora avevo vissuto dentro ad una bolla di sapone e avevo dato troppe cose per scontate. Per esempio, i mezzi di trasporto: qui le fermate non esistono, bisogna soltanto mettersi al bordo della strada e stare ad aspettare. Prima o poi un piki piki o un dalla dalla (moto o autobus di provenienza cinese), passerà, bisogna solo farci l’abitudine a salire su un pulmino fatto per dodici persone in cui però magari c’è ne stanno più di una ventina e magari, ritrovarsi come compagno di viaggio una gallina che ti guarda da sotto il sedile.
Oppure il fatto di avere quattro stagioni. Qui sono due: quella delle piogge e la stagione secca in cui può accadere che per mesi interi non cada una goccia d’acqua. Dal momento che l’80% della popolazione è impiegata in agricoltura, la vita del tanzaniano medio si complica parecchio in questa parte dell’anno.
Ci si rende così subito conto che l’essere nati (per puro caso) nella parte “giusta, buona e bella” del mondo ci ha plasmati oltre l’ immaginabile di quello che pensavamo. Qui essere bambini non implica l’essere protetti e ricoperti di attenzioni da parte del mondo adulto, come avviene in Occidente. Qui, se sei un mtoto (bambino), sei solo uno dei tanti che in qualche modo, sgomitando, provano a farsi strada per uscire da un’età in cui i più grandi ti ignorano o ti evitano, almeno fino al momento in cui non sarai in grado di tenere in mano una zappa e darti da fare come tutti gli altri.
La giornata tipo di un bambino di sei anni, comincia alle cinque di mattina, quando ci si sveglia e si va a prendere l’acqua alla fontana fuori casa, (ammesso che si viva in una zona in cui le risorse idriche siano accessibili). Dopodiché ci si prende cura dei bambini più piccoli, si indossa una divisa lacera e ci si dirige a scuola ad incontrare i 50, a volte addirittura 100, compagni di classe e a sperare di imparare qualcosa. Durante le lezioni bisogna stare attenti e rigare dritto, se non si vuole essere picchiati con un bastone sul sedere o sulle mani dal maestro o dal preside (così è previsto dal regolamento del Ministero dell’Istruzione). Ai bambini meno obbedienti può capitare addirittura di ricevere una bastonata in faccia che li sfregerà a vita o li renderà cechi da un occhio. Nel tardo pomeriggio si torna a casa. L’acqua nel frattempo è finita, quindi bisogna andare di nuovo alla fonte e poi aiutare a casa fino al momento di andare a dormire.
I bambini “fortunati” nella sfortuna di vivere in un centro orfani, come il Renato Grandi ad Ilembula, possono contare su una manciata di civilisti bianchi come noi, che barcamenandoci, proviamo ad integrare l’istruzione scolastica con delle ripetizioni, a sviluppare un senso critico e creativo attraverso i kipindi (letteralmente “momento”/ “periodo di tempo”) in cui svolgiamo attività didattico educative tramite il disegno, la costruzione, la musica ecc. e a dar loro l’affetto che non hanno quasi mai ricevuto.
Da qua il mio Paese mi sembra lontano anni luce, un altro pianeta. I miei compaesani vedono l’Africa come una terra lontana piena di esotismo, fatta per andarci in vacanza e prendere il sole su qualche isola tropicale o al più lasciarsi stupire dalle meraviglie di qualche parco naturale, ma stando ben lontani dalle persone che qui ci abitano.
Per questa ragione, consiglierei ai miei connazionali più intransigenti verso quanti cercano di costruirsi un futuro al di fuori di questo continente, di venire a vedere il vero volto dell’Africa prima di emettere sentenze e non limitarsi né all’immagine del paradiso perduto venduta dalle agenzie di turismo, né a quella vittimista e stereotipata trasmessa dai media generalisti e da certe organizzazioni umanitarie.
Io, grazie a quest’esperienza, ho l’opportunità di confrontarmi e di vivere quotidianamente una realtà culturalmente lontana dalla mia e ho capito che solo attraverso la diversità si può trovare la vera essenza dell’essere umano. Me lo dimostrano ogni giorno i bambini e le bambine del centro orfani: siamo persone per molti aspetti diversi, sia per i modi di approcciarsi alla vita che per il bagaglio culturale che ci portiamo appresso, ma in fondo uguali in tutto e per tutto, ognuno con i suoi pregi, le sue debolezze e la propria storia da raccontare, tutti figli dello stesso mondo che osserviamo con occhi differenti.
Voglio concludere con una famosa frase di Don Milani, che è anche quella che ho trovato scritta sul quaderno consegnatomi all’inizio, alla formazione del Servizio Civile:
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri”.