I mille volti dell’Africa

di Paola Valenza

WANGING’OMBE- Ci sono Yougin e Shazia, Lightness e Lazaro. Questi sono solo alcuni dei numerosi volti che ogni giorno arrivano al Centro Inuka CBR di Wanging’ombe, nella regione di Njombe in Tanzania. Inuka Southern Island CBR è un centro di riabilitazione su base comunitaria con lo scopo di fornire cure riabilitative di alto livello a bambini e adulti con disabilità. 

Il centro fornisce riabilitazione fisioterapica, cognitiva, logopedica, oltre ad avere un laboratorio e una falegnameria per la realizzazione di protesi e ausili su misura per ogni paziente. Direttamente collegato alle strutture di riabilitazione vi è anche l’oleificio di Inuka che produce olio di semi di girasole, fonte di reddito per il centro e opportunità di inserimento socio-lavorativo per persone adulte con disabilità. Infine, Inuka dispone anche di un centro per la salute, ovvero un dispensario che fa da riferimento per la popolazione locale con problemi di salute di minore entità, dotato di una piccola farmacia e di stanze di degenza. 

Mi presento, sono Paola, presto servizio a Inuka CBR da ormai quasi 6 mesi, grazie al progetto di Servizio Civile “Barabara-Le strade” indetto dall’associazione CESC Project, della durata di un anno. Sono partita per l’Africa a gennaio 2019 e dopo un periodo di formazione sono arrivata alla mia destinazione finale, il centro Inuka. Al mio arrivo in Tanzania mi sono sentita catapultata in un’altra dimensione, dove per ambientarsi bisogna capire a fondo la cultura del posto, non da viaggiatore semplice, da turista, ma da cittadino vero e proprio, il cui scopo è quello di diventare partecipe e parte integrante di una comunità, disponibile allo scambio di idee, pensieri e risorse con la gente del posto. Tutto ciò è ancora più importante in un luogo come Inuka, dove tante figure professionali hanno bisogno di collaborare al fine di offrire un servizio utile e funzionale ai bambini con disabilità.

Ma cosa significa essere disabili in Tanzania? La disabilità può cambiare da paese a paese? Ebbene sì, non cambia di certo la disabilità in sè e per sé, ma cambia la percezione che si ha di essa, l’importanza e il valore che si da ad una persona con disabilità. In Tanzania le persone con disabilità sono circa 4,2 milioni, un numero consistente, difficile da gestire in un paese ancora in pieno sviluppo e con tante criticità e contraddizioni che lo contraddistinguono. Nonostante questo, la Tanzania sta facendo grossi passi in avanti a riguardo, tanto che nel 2010 è stato creato il “Persons with Disabilities Act”, una riforma attuata dal governo tanzaniano, in cui vengono elencati i diritti delle persone con disabilità e viene promossa la loro inclusione e valorizzazione, al fine di ridurne l’emarginazione ed esclusione sociale e di agevolare il sostegno alle famiglie che se ne prendono cura. È un importante messaggio rivolto alla popolazione tanzaniana, un riconoscimento formale dei problemi che affliggono le persone con disabilità e dei diritti che spettano a ognuno di loro, un importante traguardo per il paese. Tuttavia, ancora il bambino disabile è talvolta motivo di vergogna per i genitori, in un contesto in cui le famiglie sono numerose e la necessità primaria è quella di essere capaci di lavorare per diventare indipendenti, la disabilità non lascia via di scampo, il destino per questi bambini spesso e purtroppo è quello di essere abbandonati nelle case, lasciati a se stessi, senza potere andare a scuola, senza poter essere realmente inclusi nella comunità. Si aggiungono a ciò tutte le credenze popolari legate alla disabilità, come il pensare che la madre è la principale causa della malattia del figlio, motivo per cui queste madri molto spesso vengono emarginate e abbandonate dal padre del bambino e si ritrovano a dover gestire da sole la cura dei figli. Infine, è usanza comune portare il bambino disabile dallo stregone, che si offre di curarlo attraverso particolari pratiche magiche, naturalmente inefficaci e provoca segni indelebili sulla pelle di questi bambini. 

In un contesto così complesso si scorge però una luce, quella luce è rappresentata da tutte le famiglie che decidono di venire a Inuka per ricevere delle cure mirate, scoprendo, inoltre, di potere sostenersi a vicenda e capire di non essere sole. Al centro, i genitori di questi bambini non solo ricevono adeguate informazioni sulla disabilità del figlio, ma vengono anche istruiti e formati sugli esercizi di tipo fisioterapico, logopedico e cognitivo che possono svolgere a casa e che permettono ai bambini di rimanere costantemente attivi sia dal punto di vista fisico che mentale e attraverso ciò di stimolare la relazione genitore-figlio, prestando attenzione anche alla sfera socio-emotiva del bambino. Le famiglie hanno la possibilità di soggiornare all’ostello del centro durante tutto il periodo di riabilitazione, occasione questa di scambio e di condivisione, in cui si creano legami e ci si sente parte di una comunità. 

L’esperienza da me vissuta, in termini di tempo non è molta, ma già adesso conservo e porto con me immagini indelebili, impresse nella mia mente, come l’immagine delle mamme che si prendono cura di bambini che non sono i loro, ma che trattano come se fossero state loro stesse ad averli dati alla luce, di mamme che vedono i loro bambini ridere, interagire con gli altri e fare progressi che, glielo si legge nel volto, non avrebbero mai pensato di poter raggiungere, quella di tutti i canti e i balli fatti insieme ai genitori, ai bambini e alle operatrici, in cui tutte le voci si mescolano ritmicamente a formarne una sola, in cui si percepisce il legame che unisce ognuno di noi, un’interdipendenza, un unico canto, un inno alla vita e alla speranza. 

Nonostante il processo di cambiamento per questo paese, come per tutti i paesi in via di sviluppo, sia lento ed estremamente lungo, difficile e pieno di ostacoli, mi basta pensare ai volti che ogni giorno si rivolgono ad Inuka per un aiuto, perché sono loro che ci permettono di credere che il cambiamento è possibile, che nonostante tutto questi bambini possono davvero avere un posto nel mondo, anche quando il mondo stesso sembra non essere predisposto ad accogliere tutti. 

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