Un kitenge non è solo un pezzo di stoffa
di Marianna Russo
C’è una frase che continua a risuonarmi in testa: “un kitenge non è solo un pezzo di stoffa”.
Ho capito presto che il kitenge serve a un sacco di cose ma non mi ci ero mai soffermata più di tanto. Un kitenge può essere legato in vita come il kanga e in questo caso servire anche da portafogli. Le donne infatti usano mettere gli spicci in uno dei due lembi e le banconote nell’altro. Può servire per “bebare” i bambini o diventare un pannolino, una mantella, un copricapo o la base per portare secchi e ceste in testa. Insomma dietro a un pezzo di stoffa c’è un mondo e non è l’unica cosa a cui i tanzaniani trovano mille usi diversi.
I tappi delle bottiglie di vetro diventano strumenti per contare o giochi per i più piccoli; i grandi sacchi di plastica, dopo essere stati usati per trasportare i prodotti coltivati nei campi o comprati al mercato, si trasformano in spugne per i piatti. Gli anelli di plastica intorno al collo delle bottiglie possono essere usati per dar vita ad una meravigliosa corda per saltare, da allungare o accorciare a seconda dell’altezza di chi gioca. Un giorno ho visto perfino un uomo che con una scarpa da ginnastica aveva creato un fantastico cappello: tagliata via la suola infatti la indossava sulla testa usando i lacci come cordino per legarla sotto al mento.
In un paese in cui il problema dell’immondizia è davvero grave, so bene che non si tratta del risultato di un’efficace campagna di sensibilizzazione sul tema del riciclo, ma piuttosto dell’espressione del fortissimo senso pratico che caratterizza i tanzaniani.
Ci pensavo un giorno, mentre parlavo con Dorkas e Alphoncia (le operatrici del centro di Iyunga) di temi come figli, matrimonio, spesa, cucina e lavori di casa. Non era la prima volta che mi trovavo ad affrontare argomenti del genere, quel giorno però, con qualche parola di swahili in più, su quella sottile linea di confine che separa il giudizio dalla scoperta, ci siamo spinte un po’ oltre e così ho visto le cose da un altro punto di vista.
Ci sono credenze e abitudini molto diverse rispetto alle mie, a cui spesso fatico ad avvicinarmi e il tema famiglia è uno di quelli che sembra essere più lontano. Mentre Dorkas mi dava consigli su come cucinare, mi invitava a casa sua per insegnarmi a uccidere un pollo (abbastanza sconvolta dal fatto che a casa mia non sapesse farlo nessuno), mi spiegava quanto cambia la condizione del fidanzamento rispetto al matrimonio, non mi sono sentita giudicata e non sono andata a ripescare i miei pregiudizi.
Ho avuto la sensazione che in qualche modo lei stesse solo cercando di sistemare i tasselli necessari per diventare una donna. Allontanandomi dalla situazione specifica e, allargando un po’ lo sguardo, ho capito che in fondo non stava facendo niente di diverso rispetto a quello che ha fatto mia madre in tutti questi anni. L’unica differenza è l’attenzione verso gli aspetti pratici piuttosto che quelli ideologici.
Non so spiegarlo bene, ma in quel momento mentre percepivo quell’attenzione materna e quella cura ho sentito anche le distanze accorciarsi.