Il mio primo mese in Amazzonia

di Laura Alessio

Che sia per fuggire dalla gabbia del tuo forse frustrante modo di vivere molto occidentale, il desiderio di metterti alla prova o la curiosità di scoprire come si vive dall’altra parte del mondo: la terra promessa, il Sud America … qualcosa di profondamente insofferente in te deve esserci. Altrimenti rimani dove sei, o fai un viaggio … insomma trovi altri modi.

Nel mio caso è stato il perfetto cocktail di tutto questo.

Così ho scoperto il servizio civile all’estero, così ho scelto il paese, l’Ecuador, e il progetto, e così ho scelto la regione: l’Amazzonia.

Senza sapere una parola di Spagnolo, senza valutare nemmeno per un secondo le alternative meno complesse, senza pensare che forse, FORSE, avrei potuto mediare con me stessa almeno sulla sede regionale…le Ande sono ugualmente meravigliose no? No.

In questo modo avventato sono atterrata un po’più di un mese fa dall’altra parte del mondo, e tra il sonno del Jet-Lag e di mille seminari in Spagnolo sono trascorsi velocemente i primi giorni di “acclimatamento” a Quito.

All’improvviso eccomi sul sedile posteriore di un Pick-Up ad attraversare la Sierra Andina e più di 3000 metri di dislivello per essere catapultata direttamente…nell’Inferno.

Mi fa quasi male scriverlo, perché a distanza di un mese questo posto con tutti i suoi “disagi” è diventato casa.  Però voglio essere, per quanto posso, il più possibile fedele alle mie prime sensazioni, emozioni e stati d’animo per lasciarle dove potrò rileggerle più avanti.

Inferno è stata la prima parola che mi è venuta in mente appena scesa dal pick up, a dispetto di tutto l’entusiasmo, l’adrenalina e la predisposizione. A dispetto di tutto il training e il lavoro svolto su me stessa nei due mesi precedenti, e soprattutto a dispetto della costante ed inesauribile voglia di avventure che mi contraddistingue da sempre.

Sono scesa dal Pick-up, ho fatto due passi e sarei voluta fuggire. Voglio riassumere le prime vivide sensazioni di quella sera in due punti essenziali:

1 Mal di montagna

Sì perché puoi essere l’escursionista più montanaro e preparato del mondo, ma il passaggio repentino da 4000 a 300 metri slm non può lasciarti perfettamente integro. Sentivo la testa pesante, e tutto il mio corpo sembrava piombo, e il mio unico desiderio per tutta quella sera è stato mettermi orizzontale per non svenire lì per lì.

2 Umidità

Nessuna palude, nessuna estate italiana mi aveva mai abituata a respirare acqua. La sensazione più prepotente in assoluto, in questa regione, è quella di essere perennemente umidi e appiccicosi … dopo un po’ ti rendi conto che non è nemmeno vero sudore, cosa che all’inizio disturba perchè ci si sente sporchi. E’ proprio la maledetta aria con dentro il 90% d’acqua. Una specie di bagno turco. I primi giorni ho faticato molto ad abituarmici, mi ero persino convinta che la mia pelle avesse cambiato consistenza: come quando fai un bagno troppo lungo e ti si spugnano le mani.

Così cominciò l’esperienza Amazzonica.  E non posso dire che i disagi si siano limitati a questi due. Purtroppo sono una che non conosce le vie di mezzo: le sensazioni non mi rimbalzano mai addosso e qualsiasi emozione mi rimbomba dentro all’estremo sia in positivo che in negativo: euforia e disperazione.

Ecco perché le prime due settimane sono state tremende per me. Mi sembrava di essere su un’altalena degli stati d’animo: ogni ostacolo tragedia, ogni scoperta incanto.

Non è stato bello aver paura delle zanzare: il primo (solo il primo davvero) giorno provi a mettere l’Autan, già il secondo capisci che A: non serve a niente B: sei troppo sudato. Il terzo giorno amen, decidi fermamente che non saranno le zanzare ad ucciderti.

Non è bello non avere acqua potabile e dover fare avanti e indietro con un  boccione da 20 litri ogni volta, ma bazzeccole di fronte al fatto che l’acqua che non potevo bere mi dava anche allergia quando la usavo per lavarmi.

Disagio è stato scoprire, al primo aquazzone, che mi piove in camera (in un posto dove ovviamente piove tutti i giorni: non a caso si chiama foresta pluviale)

Decisamente più disagio però è stato rendersi conto che dal tetto, oltre alla pioggia, piove quotidianamente anche cacca di topo e di pipistrello! E’ stato un momento topico del mese di Febbraio, mi ha messo a dura prova e, dopo un anno, ho ricominciato a fumare.

Poi hai la nostalgia:

Ti manca la gente.  

Ti manca la gente perché c’è il fuso orario! Quando finiscono le attività di servizio in Italia sono tra le 23 e le 24 della notte, e se vuoi provare a sentire qualche coraggioso amico ancora sveglio devi fare le corse tra la spesa, la lavanderia, la pulizia della casa, la cucina e magari -sembra banale- farsi una doccia e aprirsi una birra. Dopo le 7 è finita, dormono tutti.

Inoltre la mia vita sociale in questo primo mese è passata da 1000 a quasi 0: nonostante l’amicizia e il supporto che ci diamo tra noi civilisti in Ecuador, arrivare qui con la pelle bianca, i capelli biondi e senza hablare una palabra di spagnolo significa che, per quanto tu abbia voglia di dispensare sorrisi e abbracci, nessuno è subito propenso a restituirteli. Quindi un mesetto è passato senza che io riuscissi a costruire un vero rapporto umano.

A questo punto, forse, è necessario spendere due parole: per forza di cose, la mia vita sociale è praticamente diventata il mio collega/coinquilino/amico/solida roccia: Antonio. Vuoi o non vuoi la “persona del mese” di Febbraio. Non ho mai avuto un coinquilino, non ho mai neanche vissuto così a lungo fuori casa, e mi sono ritrovata qui, h24, in una stanza comunicante con questo soggetto: 23 anni, aspirante politologo cooperante capellone, con l’accento più bergamasco che abbia mai sentito. Imprevedibilmente il nostro rapporto, fin dai primi messaggi su whatsapp a Dicembre, è sempre stato complice. Forse non ho mai conosciuto qualcuno così diverso da me. Uno specchio al contrario: io ansiosa, insicura, introversa, pessimista, polemica, perfezionista, alquanto handicappata nei rapporti sociali…insomma,un po’ quadrata. Lui sciolto – o come dice lui sciallo -, rilassato, estroverso anche con i sassi, diplomatico che è impossibile litigarci, positivo sempre e comunque. Fin ora, senza neanche saperlo, mi ha salvata un milione e mezzo di volte dalle mie crisi semplicemente col suo atteggiamento rilassato e positivo verso le cose: provo a imitarlo ogni giorno.

La nostra convivenza procede placida: le idee diverse si trasformano ogni sera in chiacchierate e non in litigi, e i nostri ritmi e le abitudini si sono in gran parte sintonizzati.

Ti mancano i tuoi posti.

 

Cose che non immaginavi possono farti soffrire: la distanza dal mare per chi ci è sempre stato vicino è dolorosa, l’assenza di panorama anche. Non che la giungla non sia meravigliosa, anzi strepitosa, ma non è come far vagare lontano lo sguardo su un paesaggio fatto di colline, o di montagne, o di orizzonte marino. L’Amazzonia è un’immensa pianura -un intricatissimo blob verde ripieno di cose fantastiche- ma non so se rendo l’idea: non vedi mai oltre 300 metri di distanza. E il cielo azzurro e il sole sono un lontano ricordo.

 

Ti manca il tempo libero.

 

Questo primo mese è stato super frenetico.  In tempi brevissimi doversi mettere in pari con una nuova lingua, e nello stesso tempo con nuove cose da fare e nuove abitudini si traduce in scarsa organizzazione e poco tempo per se stessi e per le cose che vorresti fare.

Pochissime passeggiate, zero sport, zero energia per leggere, scrivere, guardare un film, etc.

 

Ti manca il CIBO soprattutto.

Il cibo è uno proprio uno shock: la tua dieta cambia radicalmente e devi abituarti a sapori che nel migliore dei casi non ti sono familiari, nel peggiore non sopporti: avete mai provato il coriandolo? Qui è praticamente ovunque: sa di sapone.

Per quanto riguarda il servizio, non è stato per niente facile affrontare il panico quando qualcuno mi ha chiesto di fare qualcosa che non avevo mai nè fatto nè imparato a fare. Probabilmente la mia paura di non  essere all’altezza delle cose continuerà a perseguitarmi tutta la vita, ma confido moltissimo in questa esperienza: ho capito che la cosa più importante su cui posso lavorare in questo anno è la mia insicurezza. Niente panico: respira, siediti, studia, provaci. Ce la puoi fare.

Il disagio peggiore però, sembra strano a dirsi, è stato la lingua. Chiunque, me compresa, penserebbe “vabbè dai, lo spagnolo è così simile all’italiano! Vedrai che impari subito”.

Solo che quel subito mi è sembrato non passare MAI. C’è da dire che non sono qui in vacanza, e lo spagnolo non mi serve soltanto per chiedere indicazioni all’incrocio o ordinare il pranzo al ristorante. Ci devo lavorare: per collaborare con una ONG il minimo che ti è richiesto è leggere e scrivere progetti sui temi più disparati -dalla raccolta differenziata, alla coltivazione sostenibile del cacao, alla questione dei rifugiati colombiani – comunicare con i colleghi, partecipare alle riunioni d’equipe, a quelle con i finanziatori e con gli enti partner, possibilmente senza articolare solo monosillabi e gesti come una scimmia.

Soprattutto, essenzialmente, capire e farti capire è fondamentale. Non vuoi correre il rischio che i tuoi colleghi non ti prendano sul serio, che la tua preparazione sia svalutata, che tutti ti guardino come una Gringa in vacanza.

Magari sono soltanto io ad essere ansiosa. Ma cavolo, è stata in assoluto la cosa più frustrante di tutte, desiderare di farsi capire e non sapere come farlo, come comunicare, e temere il (pre)giudizio della gente.

In quelle famose due settimane ho pianto un po’.

 

Oggi è il 7 Marzo però. E voglio dire che le cose sono cambiate.

Mi sono abituata al clima, alla pioggia, all’acqua della doccia e a quella dal tetto: un secchio e via, non è una tragedia.

Ho scoperto che per socializzare con i giovani, “basta” ballare: puoi scegliere tra salsa, bachata, cumbia e raeggetton. Ora, premesso che non credo riusciremo mai a farceli piacere troppo, io e Antonio ci siamo convinti a cercare una scuola di ballo e imparare.

Mi sono organizzata meglio gli impegni casalinghi: la maggior parte delle volte riesco a ritagliarmi un paio d’ore al giorno per rilassarmi o chiamare di tanto in tanto i miei amici in Italia. Sono riuscita addirittura a godermi il fresco di quattro interi giorni sulla Sierra insieme agli altri compañeros italiani, e in così poco tempo siamo riusciti a infilarci una passeggiata a 4000 metri in montagna, la sfilata di carnevale in costumi tradizionali kichwa, e due giorni alle bellissime cascate di Baños.

Nel frattempo, ho scoperto dei posticini -il terrazzo di casa, la pacifica riva di un fiume, la macchia d’ombra della chioma di un albero -che mi fanno stare bene. E ho anche scoperto che dalle 5 alle 6 del pomeriggio, curiosamente, il cielo si apre e intravedi un po’ di azzurro e una luce particolare davvero bella.

Sono stata sorpresa da cibi interessanti:  al primo posto la Yuca: un tubero mille volte più saporito della patata, potrei mangiarne quintali, al secondo le empanadas. E ancora patacones di platano, birra michelada alla messicana, maito di Tilapia, spiedini di mojojoy, cacao e altri mille frutti esotici dai nomi incomprensibili e succhi di frutta centrifugati che sono un’autentica droga.

Lo spagnolo migliora di giorno in giorno: non passo più le nottate a studiare e le giornate a gesticolare come una pazza. Riesco a farmi capire, e a capire chi non biascica o sussurra, e oltre all’ovvia comodità di tutto questo… che soddisfazione poter scherzare con la gente! Basta un po’ d’umorismo per migliorare nettamente il rapporto con le persone: ho scoperto dei colleghi simpatici, preparati, pronti a insegnarti e curiosi di imparare qualcosa da te. La gente è così: riservata e diffidente in principio, ma calorosa, sorridente e affettuosa pian piano che la conosci, quasi mi sembra di essere stata accolta in una famiglia.

Sono poi, ahimè, sprofondata nella dipendenza da artigianato indigeno! Mi farà diventare povera, lo so, ma non posso resistere dall’investire ogni mio centesimo in collanine e braccialetti fatti di semi. Grazie a questa nuova malattia però ho incontrato la mia prima amica, una ragazza di etnia Kichwa: poco dopo esserci incontrate sul lungofiume di Coca eravamo davanti ad una birra a scambiarci consigli su come intrecciare il macramè e una settimana dopo a pranzo a casa sua per studiare come iniziare un’attività online.

Inoltre, mi sono ritrovata ad usare in continuazione l’aggettivo màgico. Vorrei poterlo spiegare. Màgico è come gli autisti dei bus scendono per le ripide stradine delle Ande tutte curve a 1000 km orari piegandosi a terra come fossero in moto senza ucciderti; màgici sono TUTTI i Colombiani che ho incrociato: dal vecchietto hippy dalla vocina soave che girovaga costruendo e regalando rompicapo di fil di ferro dopo aver trascorso 5 anni in prigione per aver lavorato con Pablo Escobar, ad Alex, il barbiere sotto casa che per due dollari ti fa la barba come se scolpisse una nuvola, agli artisti di strada girovaghi con mille storie da raccontare e pietre colorate intrecciate in collanine meravigliose;  màgici sono i Kichwa, quando seduti intorno ad una mesa al tramonto raccontano di come gli animali della selva, anaconde in primo luogo, assumano regolarmente sembianze umane per attirare in luoghi segreti nel cuore della foresta gli ignari passanti: tutto vero eh, successo ad amici, poi tornati dalla selva saggi!  Màgico è stato il carnevale a Guaranda, e la gente che ti versava pajaro azul come se non ci fosse un domani; màgica è la chicha, la famosa bevanda di benvenuto che qualsiasi famiglia indigena si aspetta che tu sorseggi con gradimento: nonostante le diverse versioni, quello che non cambia è la preparazione, frutta masticata e fatta fermentare -è stato anche magico scoprire che non ha un brutto sapore; màgico è il tempo e il modo insolente in cui qui scorre con ritmi diversi dai tuoi, spesso lentissimo, talvolta però accelerando così improvvisamente da farti perdere l’orientamento.

Ma màgico per me è anche altro: farfalle coloratissime di dimensioni spropositate che svolazzano come piccoli lenzuoli; minuscoli colibrì sbrilluccicanti che fatico a considerare veri uccelli piuttosto che insetti; fiori, foglie, tronchi, frutti, radici dalle forme selvagge che non posso trattenermi dal cercare di …capire?; alberi enormi, solenni, abitati come condomini e suoni allucinanti, uccelli poi realizzi, ma sono reali?! Che diavolo di ugole esistono al mondo? Màgico come il cacao si trasforma in burro; màgiche fattorie fatte di giungla; màgiche rane minuscole, formiche enormi, arenillas invisibili che ti mangiano vivo senza che te ne possa accorgere.

Insomma. In verità è passato soltanto un mese e non ho trovato una spiegazione proprio a tutto. Ci sono questioni che mi lasciano perplessa e di fronte alle quali non riesco ancora a schierarmi, come il petrolio, o lo “sviluppo” delle popolazioni indigene; altre cose che faccio fatica ad afferrare come la politica, la burocrazia, il delicato equilibrio tra uomini e donne e il significato della parola “aiutare” nelle sue mille sfaccettature. Non sono nemmeno venuta a patti con tutti i disagi, però li sto affrontando uno alla volta.

Per concludere, la mia lista dei viaggi da fare, dei posti (e delle specie) da vedere e delle esperienze da vivere in questo paese è ancora mooolto molto lunga.

Ma diamoci tempo, ho altri undici mesi. Scialla.

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